WALDE”MARE”

 

Waldemar aveva detto che si partiva per il mare, ma né durante il viaggio in ferrovia che fu lungo e faticoso, né alla meta che toccammo al crepuscolo, il mare fece la più piccola mostra di sé, la più fuggitiva apparizione tra il grigio amplesso della terra con le nubi. Quale contrasto con i ricordi marini che serbavo dall’infanzia, col mare greco che è la vita nella vita, e brilla d’improvviso tra i pini, s’accende allo sbocco di un anfratto montano, scintilla in fondo alle strade delle città marittime, gioca con i tendoni variegati dei caffè, gonfia le casacche bianche dei marinai appiedati, che passeggiano a dóndolo sul molo, stretti a catena per le braccia come le ragazze di paese! E non si dica che chi gioca con i tendoni dei caffè e gonfia le casacche dei marinai non è il mare ma il vento, perché il vento marino, grecale, maestrale o libeccio, non è elemento definito in sé, indipendente, ma lo spirito stesso del mare che questo, dalle sue gote rigonfie e dalla sua rotonda, cartilaginosa, trasparente bocca di pesce, spira a getto nel cielo e sulla terra. […]

Laggiù, nella città della mia infanzia, seduta sulla riva del golfo pagasètico e poggiata con le spalle al selvoso Pelio, il mare entrava anzitutto per le narici, e dietro le case bianche a due piani e persiane verdi, che come poppe fiorite offrivano al passante i loro terrazzini, il mare si rivelava negli ululati lunghi, tritonei dei grossi piroscafi neri, pesanti di poppa e con i fianchi impecettati di rosso, che o salpavano dal porto per lontani paesi, o dal fondo del golfo annunciavano il loro arrivo.

Nei pomeriggi d’estate, quando il sole calava all’orizzonte e sulla terra le ombre diventavano sempre più lunghe, una barchetta a due remi guidata da un ragazzino veniva ad attraccare al molo, con tutta la prua fuor d’acqua, tanto il peso del viaggiatore seduto a poppa la metteva in quella posizione di naso in aria. Nettuno sbarcava sul molo, e andava a sedersi al caffè Lubiè per godersi un po’ il fresco. […] A Nettuno piaceva pure fumare a narghilè, e mentre poppava il bocchino d’ambra, e aspirava il fumo leggero che poi emetteva dalle narici svasate e spandeva tra le turchine anella della barba, si divertiva a guardare dentro la capace bottiglia del narghilè l’uliva che ballava nei ribollimenti dell’acqua. Al Lubiè tutti lo conoscevano, ma benché sedeva nudo al tavolino, ingrommato di mota e di salsedine, inconchigliato nel pelo sgocciolante, e col suo piccolo tridente tozzo come un ombrello e barbato di alghe poggiato alla sedia, nessuno lo molestava e anzi fingevano di non vederlo. Presso di lui però nessuno andava a sedersi, e i tavolini vuoti componevano intorno al dio del mare una zona di rispetto. Il signor Lubiè, proprietario dell’esercizio, avrebbe rinunciato volentieri all’onore di noverare tra i suoi clienti un dio, e sarebbe stato lieto che Nettuno si trasferisse di tanto in tanto, lui e il suo tridente, al vicino caffè Tombàsi, gestito dal suo nemico e rivale Pelòpida Zanakàkis.

Questi ricordi mi rilucevano nella mente e assieme mi torturavano, mentre traversavamo, Waldemar e io, quel tetro paese di Normandia.

 

(Tratto da: Alberto Savinio, Casa «La Vita», ed Adelphi, Milano, 1988, pp. 93 – 94 – 95)

 

2 comments to WALDE”MARE”

  • il “pezzo” è molto carino ma…il libro?!?
    lo consigli?

  • thalia

    …lo lessi molto tempo fa, ed ora non lo ricordo più tanto bene. Certamente la prosa di Savinio è sempre molto scorrevole, non manca mai di ironia e di una incredibile fantasia. A volte risulta comunque un pò pedante. Pensavo di rileggerlo, vi farò sapere più dettagliatamente… :)

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