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Roberto “Ciko” Mauri

Roberto “Ciko” Mauri, ha 38 anni e dal conseguimento del diploma alla scuola per infermieri, lavoro a fronte; ha inizio con la Bosnia e la guerra nell’ex Jugoslavia.
E’ poi passato con Medici Senza Frontiere in Africa, è ritornato Jugoslavia e poi a San Pietroburgo, dove si è occupato di un ambulatorio per senza fissa dimora.
Da quando è stato in un orfanotrofio in Rwanda durante il sanguinoso conflitto tra Hutu e Tutsi, si dedica ai problemi dei minori abbandonati.
Nel 2000 era a Manila (Filippine), dove continuava a prendersi cura dei bambini di strada.
Sulla scia di queste esperienze ha avviato un progetto come Organizzazione Non Governativa dedicata ai minori a rischio.

Ha scritto il libro magnifico “Luna Park Rwanda” che ci regala una drammatica fotografia del Rwanda alla fine degli anni novanta.

Rosamond Carr: la signora che ha cambiato il mondo

Raccontare della stupenda signora Carr non oso perché non saprei di cosa parlo.
Mi “limito” a riportare il capitoletto che la riguarda tratto dal magnifico “Luna Park Rwanda” di “Ciko”
(NB: il libro da cui è tratto questo articolo è stato pubblicato nel 2000 e la signora Carr è morta, 94enne, nel 2006):

La signora che ha cambiato il mondo
9 maggio 1998

C’è una casa, in riva al lago, che un po’ cadente ma che ha un giardino squisitamente curato e fiorito.
A volte, percorrendo la strada che passa accanto la proprietà, si può vedere una signora anziana che accanto a due giardinieri recide fiori, raccoglie foglie secche, estirpa erbacce.
La vecchia signora si chiama Rosamond Carr, ma per tutti in Rwanda lei è semplicemente Madame Carr, l’americana.
E’ una donna di un’energia e una gentilezza formidabili, una donna che sola contro tutti, nel suo piccolo, ha cambiato il mondo.
Arrivò in Rwanda nel 1955, lasciandosi alle spalle degli Stati Uniti d’America e mille comodità.
Scelse il Rwanda perché qui i fiori sbocciano tutto l’anno senza rispettare i ritmi delle stagioni…
Andò in Africa dicendosi che in ogni caso sarebbe riuscita a superare le difficoltà vendendo i propri fiori, se fosse stato necessario, e per un certo periodo lo fece. Andava al mercato con i suoi meravigliosi mazzi di fiori colorati, percorreva la strada accanto alle donne che scendevano in città per vendere patate e manioca. Era strano per loro, abituate al commercio di beni necessari per la sopravvivenza, immaginare che questa piccola americana vendesse dei fiori, più di una volta le chiesero…” ma lei, i fiori, li mangia?”

Nel 1994 nella patria di gorilla, incominciò il sanguinoso gioco che condusse al massacro di milioni di persone e che costringe Madame Carr ad emigrare verso il Nord America.
“Rimasi negli Stati Uniti fino alla fine dell’estate – racconta la donna con gli occhi ancora lucidi – aspettando che le cose si calmasse un po’. Non facevo che guardare la televisione. Corpi morti, bambini abbandonati e raccolti in approssimativi centri d’accoglienza e soccorso a soli 15 km da casa mia. Quella che vedevo nella televisione era la mia terra, la mia gente…”
Madame Carr non ha mai avuto figli, ma ne desiderava addirittura sei. Le immagini rwandesi, in cui bambini orfani, ferite ed abbandonati erano una costante, la spinsero a cambiare vita.
Nel 1994 il suo viso era già coperto di rughe, di una saggezza di una semplicità che solo il tempo insegnano ad avere.
Tornò a Gisenyi e rintracciò i suoi domestici, i suoi giardinieri, i suoi collaboratori che nel frattempo si erano rifugiati in quello che allora si chiamava Zaire. Comunicò loro che avrebbe voluto prendersi cura degli orfani e che le serviva il loro aiuto.
Oggi Madame Carr è la “mamma” di 93 bambini. Dopo essere stata sfrattata da una parrocchia cattolica che al posto del suo orfanotrofio ha preferito una scuola professionale, a pagamento, Madame Carr si è trasferita in un altro stabile nei pressi dell’aeroporto dove continua, con la sua solita tenacia, il delicato lavoro di sempre.
“Ai bambini – racconta con un sorriso luminoso – serve soprattutto amore, e noi tutti siamo chiamati a darne…”
Il piccolo miracolo di Madame Carr funziona quasi senza personale. 13 donne ed un amministratore lavorano per lei. Gli stipendi che riesce a pagare sono dignitosi ma modesti, e d’altra parte nel suo staff nessuno chiede di più, lo sanno tutti che lei non economizza su niente, ogni dollaro in più e per i bambini.
Nell’aria fredda di questa mattina, i vulcani di Goma sono alti e fieri come mai.
Spinte dal bisogno, le stesse donne che anni fa ridevano dei fiori della piccola americana, percorrono ancora con le loro patate la strada che conduce al mercato.
Madame Carr è nel suo giardino, con lei c’è Dominique, un bambino di sette anni che qualcuno ha accompagnato da lei questa mattina. Sulla maglietta che gli è stata regalata dopo averlo lavato e nutrito c’è scritto “uomo senza frontiere”, ma lui è solo un bambino, un bambino malnutrito, un bambino condannato dal Rwanda. Gli orfanotrofi statali lo hanno rifiutato, un’organizzazione internazionale lo ha tolto dalla strada e lo ha presentato a Madame Carr. La piccola americana che ama fiori e bambini lo ha invece semplicemente abbracciato.
Dominique è oggi il novantatreesimo bambino dell’orfanotrofio di Madame Carr.
“La famiglia aumenta di giorno in giorno, e finché c’è spazio, finché c’è modo, io non me la sento di dire no”.
Lasciamo Madame Carr ai suoi bambini e al suo giardino, allontanandoci un po’ imbarazzati dentro ad una grande Toyota bianca.
Ci sentiamo un po’ ridicoli in questo momento, noi pieni delle nostre certezze occidentali, ma completamente legati, profondamente impotenti… eppure non è difficile cambiare il mondo… Lei, ricca solo dei suoi fiori e di un amore che non si può imparare ad avere, con tutta modestia e con estrema tenacia, lo ha cambiato, e lo cambia ogni giorno.
Quella di Madame Carr sembra una bella favola, ma è la realtà.
E la verità, come spesso accade, costa più di quanto sembri.
L’orfanotrofio della piccola americana dalle energie di un vulcano, è sostenuto dal Programma Alimentare Mondiale, che fornisce il cibo, e da offerte spontanee per l’affitto dell’immobile, le spese di funzionamento, di manutenzione ecc.
Nonostante i disordini dell’estate 1998, in seguito ai quali la Repubblica Democratica del Congo (ex Zaire) dichiarò guerra al Rwanda, e nonostante l’ambasciata americana ed alcuni rappresentanti delle Nazioni Unite e delle organizzazioni internazionali la spinsero ad evacuare per porre in salvo la propria esistenza, la piccola americana non ha più accettato di andarsene da quella che considera la sua terra.
Nonostante i consigli, le minacce e la paura lei è rimasta con i suoi bambini dimostrando che la presenza a volte vale più di qualunque altra cosa.
Madame Carr non chiede nulla, la sua dignità è troppo grande per domandare denaro, ma noi sappiamo che è una donna onesta e che per gestire una casa che ospita quasi 100 orfani servono quattrini. Noi le crediamo.
Se qualcun altro ha fiducia in lei e se la sente di dare una mano, siamo certi che il mondo continuerà a cambiare.

Banque de Kigali, bureau de Gisenyi
c/c 040-602826-70
intestato a “M. Rosemunde Carr – Orphelinat IMBABAZI Gisenyi”

Per scriverle: M. Carr, BP 98, Gisenyi – Rwanda

Rosamunda ha anche pubblicato nel 1999 un libro: “Land of a Thousand Hills: my Life in Rwanda

Giorgio Bettinelli

Giorgio Bettinelli…un vero italiano vero cittadino del mondo.
A cavallo della Vespa ha fatto 2 volte il giro del mondo!…sul serio!
Chilometro dopo chilometro ha scritto quattro magnifici libri di viaggio…tutti da leggere:
1997) Da Roma a Saigon
2002) Brum brum
2005) Rhapsody in black
2008) La Cina in Vespa

Qui di seguito il suo “curriculum” di viaggiatore. Dal suo ultimo libro:

Nel maggio del 1992, a Bali, mi viene regalata una vecchissima Vespa, e da quel giorno la mia vita, che ormai programmavo tranquilla e stanziale in quel villaggio sulla costa est dell’isola, è cambiata dal giorno alla notte, ha subito uno scossone violento di quelli che portò può dare soltanto una storia d’amore o una supervincita al Totocalcio o un’improvvisa follia…
Da allora, dopo un breve apprendistato scooteristi tra Giava e Sumatra e
1) un viaggio dall’Italia al Vietnam (24.000 km in sette mesi),
2) c’è stato un secondo raid in Vespa, dall’Alaska alla Terra del Fuoco (36.000 km in nove mesi);
3) poi un terzo da Melbourne a Città del Capo (52.000 km in un anno esatto);
4) e poi ancora un quarto viaggio dalla Terra del Fuoco alla Tasmania via terra (144.000 km in tre anni e otto mesi no-stop).
E così i chilometri complessivi macinati dalle mie Vespa (a volte con lentezza esasperante, a volte con velocità da crociera e poche altre a tutto gas), sono diventati 256.000 tondi tondi.
In 134 nazioni diverse, alcune delle quali attraversate tre volte in tre rispettivi viaggi, come Iran, Pakistan, India e Thailandia.
Più di sei volte la circonferenza dell’equatore e due volte tutti i continenti, con la sola esclusione dell’Antartide.

Tristemente Giorgio è morto a fine 2008 in Cina in circostanze poco chiare (non viaggiando!).
Stava scrivendo del Tibet…Nazione talmente unica da meritare un libro intero.

Erri De Luca “Il giorno prima della felicità”

Un libricino che è un miracolo!
Un viaggio DENTRO alla Napoli del fine guerra (II WW) vissuto con gli occhi di un bambino/ragazzo/uomo tanto buono quanto vero.
Semplice…sincero…struggente…magnifico!
Leggerlo è stata una magnifica sorpresa!!!

Grazie Erri 🙂

Conosco delle Barche

nave2Conosco delle barche
che restano nel porto per paura
che le correnti le trascinino via con troppa violenza.

Conosco delle barche che arrugginiscono in porto
per non aver mai rischiato una vela fuori.

Conosco delle barche che si dimenticano di partire
hanno paura del mare a furia di invecchiare
e le onde non le hanno mai portate altrove,
il loro viaggio è finito ancora prima di iniziare.

Conosco delle barche talmente incatenate
che hanno disimparato come liberarsi.

Conosco delle barche che restano ad ondeggiare
per essere veramente sicure di non capovolgersi.

Conosco delle barche che vanno in gruppo
ad affrontare il vento forte al di là della paura.

Conosco delle barche che si graffiano un po’
sulle rotte dell’oceano ove le porta il loro gioco.

Conosco delle barche
che non hanno mai smesso di uscire una volta ancora,
ogni giorno della loro vita
e che non hanno paura a volte di lanciarsi
fianco a fianco in avanti a rischio di affondare.

Conosco delle barche
che tornano in porto lacerate dappertutto,
ma più coraggiose e più forti.

Conosco delle barche straboccanti di sole
perché hanno condiviso anni meravigliosi.

Conosco delle barche
che tornano sempre quando hanno navigato.
Fino al loro ultimo giorno,
e sono pronte a spiegare le loro ali di giganti
perché hanno un cuore a misura di oceano.

(di Jacques Brel)

rivoluzione verde per i libri Feltrinelli

orango-feltrinelli

Ogni tanto qualche bella notizia 🙂 🙂

25 Maggio
Roma, Italia — Grazie alla nostra classifica ‘Salvaforeste’, Feltrinelli si è impegnata a stampare i suoi libri solo su carta sostenibile. Per decidersi, Feltrinelli ha avuto bisogno di quarantotto ore. Cosa aspettano Mondadori e RCS Libri a fare lo stesso?

Dopo l’incursione pacifica degli oranghi presso lo stand di Feltrinelli al Salone del Libro, abbiamo incontrato la direzione della casa editrice che ha annunciato la decisione, con effetto immediato, di utilizzare per i propri libri solo ed esclusivamente carta certificata FSC (Forest Stewardship Council) proveniente da foreste gestite in maniera sostenibile e responsabile.

Già dalle prossime settimane alcune ristampe di classici come “Re Lear” di Shakespeare, “Alfred e Emily” di Doris Lessing e “Ancora dalla parte delle bambine” di Loredana Lipperini saranno disponibili nelle librerie su carta certificata FSC.

Feltrinelli – che ha esteso l’impegno a usare solo carta FSC anche alle altre case editrici del gruppo (Apogeo, Kowalski e Urra) – ci ha anche chiesto di collaborare nella ricerca di carta riciclata che possa sostituire la carta da fibre vergini per alcune collane.

Dopo il lancio di ‘Salvaforeste’ al Salone del libro, altri editori hanno deciso di mostrare più trasparenza sulla carta utilizzata per i propri libri e hanno risposto al nostro questionario, guadagnando posizioni “più verdi”. Tra queste: Minimum Fax, Stampa Alternativa e Baldini Castoldi & Dalai.

La decisione di Feltrinelli di adottare una politica di acquisti sostenibile e la maggiore trasparenza dimostrata finalmente da altri editori dimostra che stare dalla parte delle foreste e della biodiversità non solo è necessario ma anche possibile.

L’editoria italiana ha ancora una grossa responsabilità quando si parla di deforestazione e cambiamento climatico e in particolare le case editrici dei gruppi Mondadori e RCS Libri hanno ancora moltissimo lavoro da fare per migliorare la sostenibilità della propria carta.

Se gli editori con le loro scelte non fermeranno immediatamente l’avanzata di criminali forestali come APP (Asian Pulp and Paper) nel mercato italiano, Greenpeace li riterrà corresponsabili della distruzione delle ultime foreste tropicali. Il futuro delle foreste e del pianeta è nelle pagine dei loro libri.

Rabindranath Tagore: Tu sei Mia

Cercasi uomo che ama così 🙂 

Con rovente e delicata poesia…

Tu sei la nube della sera
che vaghi nel cielo dei miei sogni.
Sempre ti dipingo e ti modello
con i miei desideri d’amore.
Tu sei mia, soltanto mia,
abitatrice dei miei sogni infiniti!
I tuoi piedi sono rosso-rosati
per la fiamma del mio desiderio,
spigolatrice dei miei canti al tramonto!
Le tue labbra sono dolci-amare
del sapore del mio vino di dolore
Tu sei mia, soltanto mia,
abitatrice dei miei sogni tristi e solitari!
Con l’ombra della mia passione
ho oscurato i tuoi occhi
frequentatrice degli abissi del mio sguardo!
T’ho presa e ti stringo, amore mio,
nella rete della mia musica.
Tu sei mia, soltanto mia,
abitatrice dei miei sogni immortali!
(Rabindranath Tagore)

VALORE di Erri De Luca

La mia amichetta Bi mi ha fatto conoscere questa bellissima poesia.notte di stelle

Grazieee!! 🙂

Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.
Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle.
Considero valore il vino finche’ dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si e’ risparmiato, due vecchi che si amano.
Considero valore quello che domani non varra’ piu’ niente e quello che oggi vale ancora poco.
Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi, provare gratitudine senza ricordare di che.
Considero valore sapere in una stanza dov’e’ il nord, qual’e’ il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca,la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.
Considero valore l’uso del verbo amare e l’ipotesi che esista un creatore.

Molti di questi valori non ho conosciuto.

(da Opera sull’acqua e altre poesie, Einaudi, 2002)

La forza delle parole e le paure del Cavaliere. Intervista a Saviano

di Loris Mazzetti, Il Fatto Quotidiano, 18 aprile 2010

Gomorra, il libro di Roberto Saviano, è stato accusato da Silvio Berlusconi di essere “supporto promozionale alle cosche”. Non c’è mai limite all’indecenza, soprattutto quando certe parole escono dalla bocca di una delle massime istituzione del nostro Paese. Non è la prima volta che il presidente del Consiglio si esprime contro chi scrive di criminalità organizzata. La volta scorsa fu a novembre, sempre in occasione del processo del suo amico Marcello Dell’Utri: allora disse che dovevano essere “strozzati” tutti quelli che hanno fatto la “Piovra” e che scrivono libri su Cosa Nostra perché “ci hanno fatto conoscere nel mondo per la mafia”. Il giorno in cui il pm chiede per Dell’Utri una condanna a undici anni per concorso esterno in associazione mafiosa, il premier se la prende con un grande scrittore che da quattro anni vive sotto scorta. Roberto Saviano ha un’unica responsabilità: quello di aver illuminato i fatti, di aver fatto conoscere all’Italia e al mondo i casalesi, di aver acceso la luce sulla camorra. Sono convinto che tanti magistrati, soprattutto quelli che stanno in prima linea, la pensano diversamente da Berlusconi, perché quella luce serve anche a loro. Ha scritto Giuseppe Fava: “Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità, impone ai politici il buon governo”. Conosco Saviano da anni. E’ forte. Ha la capacità di usare la parola come un’arma in grado di combattere la criminalità organizzata, non credo di averla riscontrata in nessun altro scrittore o giornalista. Questo ha portato Roberto Saviano ad essere considerato un uomo a rischio della propria vita, condannato dai Casalesi, dai camorristi dello stesso paese dove lui è nato e vissuto fino agli anni del liceo, è anche la sua forza e la sua grande difesa. Per la stragrande maggioranza delle persone lui è il nuovo eroe, è il moderno Lancillotto, il cavaliere della Tavola Rotonda della giustizia e dell’onore che combatte contro gli usurpatori e i tiranni a difesa del popolo oppresso dalla camorra; per altri invece è quello che ha infangato la sua terra e che non doveva raccontare quella criminalità. L’accusa di fare cattiva pubblicità all’Italia è infamante non solo per Saviano ma per tutti quei giovani che continuano a vivere nei luoghi della camorra e a lottare quotidianamente nella terra con più morti ammazzati d’Europa e come ha scritto Saviano: “Nel territorio dove la ferocia è annodata agli affari, dove niente ha valore se non genera potere. Dove tutto ha il sapore di una battaglia finale.” L’intervista che segue è tratta dal nostro incontro in occasione della scrittura de La macchina delle bugie.

Roberto ho la sensazione che la tua sia diventata una missione.
Forse sì. Io ritengo la responsabilità della parola quasi sacra. So bene che uno scrittore non dovrebbe prendersi troppo sul serio, ma a me sono accadute cose che non mi permettono questo distacco. Mi sono reso conto che la parola che sono riuscito a usare, una volta superata una certa linea d’ombra, una volta uscita dagli ambiti soliti degli addetti ai lavori, ha ottenuto un effetto impensabile, quasi miracoloso: è diventata strumento per altre persone per conoscere la realtà della camorra o per farla conoscere. La mia parola ha consentito ad altri di tirare fuori la voce.

Lo hai detto anche nell’intervista che ti fece Enzo Biagi che è stata la rabbia che ti ha spinto a scrivere Gomorra, cito testualmente: “Era tanta la rabbia da far stringere i pugni persino quando scrivevi…”.
Sì. Può sembrare questa un’immagine romantica, ma in realtà è proprio così. Mi trovai con un mio vecchio amico e ci dicemmo che la rabbia era così tanta che bisognava scrivere sulla tastiera del computer con le nocche. Lo giuro, l’immagine mi era venuta in mente dopo aver seguito la faida di Scampia, ero stato sul luogo dell’omicidio di Attilio Romanò, era gennaio 2005, e questo ragazzo innocente era stato freddato nel negozio dove lavorava, il corpo crivellato di colpi e sangue dappertutto. Quanto tornai a casa cominciai a battere sulla tastiera solo con la mano destra, mentre la sinistra, senza accorgermene, era chiusa a pugno, sino quasi a farmi male. Questo mi colpì. Non solo ero disgustato dall’omicidio, ero anche terribilmente arrabbiato perché per i media nazionali quella vittima apparteneva ai soldati di camorra: morire in una certa terra significava essere colpevoli in partenza. La rabbia è vera, nasce dentro di me. È stato sicuramente il primo motore che mi ha portato a scrivere.

Sei considerato uno dei più grandi esperti di camorra, tieni conferenze anche agli addetti al lavoro, nel tuo intimo esiste una ricetta su cosa bisognerebbe fare?
Veramente non so dove iniziare. Sicuramente so che dal momento in cui blindi i subappalti, l’attenzione nazionale diventa costante, permetti ai giudici di lavorare in maniera concreta, smetti di dare strumenti soltanto per la repressione, quei poteri criminali cominciano a inciampare, a cadere, a sentirsi stretti, ad avere il fiato sul collo. Faccio un esempio: il voto di scambio è fondamentale. Il problema non è arrestare chi lo compra con 50 euro, quello non si farà prendere mai. Non si dovrebbe far sentire il voto così inutile perché, chi lo vende per 50 euro, lo considera una cosa priva di valore. Pensa che chiunque venga eletto, farà soltanto i propri affari o gli affari di chi lo vuole mettere lì, tanto vale guadagnare un cellulare, 50 euro, una bolletta pagata. Bisogna partire da questo, invece di reprimere o arrestare chi accetta i 50 euro. A questa persona bisognerebbe fargli capire con azioni concrete che tutto sta cambiando, e che non è solo retorica quando si diceva che “il principio primo della democrazia è la partecipazione”. Oggi è esattamente il contrario: che governi la destra o la sinistra, secondo la percezione dominante tanto è la stessa cosa, tutti sono ladri, pensano solo al proprio tornaconto.

In certe zone dell’Italia bisognerebbe mantenere i fari accesi, bisognerebbe illuminare quelle terre. La criminalità organizzata ha bisogno invece di silenzio per poter fare i propri affari. Credo che una grande responsabilità ce l’abbiano i mezzi d’informazione, in particolare la televisione, che per illuminare fa ben poco. Non pensi che questo dipenda anche dal fatto che la mafia sta all’interno dell’economia e quindi riesce in qualche modo a controllare tutto?
Sì. Alla fine tutti i media si accorgono delle mafie esclusivamente quando ci sono gravi attentati, molti morti, due giorni in prima pagina poi il silenzio. È veramente assurdo. Le mafie in Italia hanno ucciso 10 mila persone, una cifra maggiore dei morti della striscia di Gaza. La guerra tra palestinesi e israeliani da vent’anni apre i telegiornali di tutto il mondo. Le mafie hanno ucciso più di qualsiasi organizzazione terroristica. Da noi il terrorismo, durante gli anni di piombo, ha fatto 600 morti, quanti in due anni a Napoli. Questi dati ci fanno capire la disattenzione, la miopia che c’è stata da parte dell’informazione televisiva su un fenomeno che già di per sé non è locale e che ha tutte le premesse per essere un problema e uno scandalo internazionale. Perché non si è parlato delle mafie per quello che sono? Io mi sono dato delle risposte. Non c’è assolutamente censura, c’è indifferenza, sono fatti considerati locali, per le persone che vivono al Nord sono avvenimenti lontani, mentre al Sud non si comprano i giornali nazionali. La televisione non racconta le vere storie di mafia e quando le racconta lo fa in maniera folkloristica.

C’è una frase di Dalla Chiesa che mi ha sempre colpito: “Lo Stato dia come diritto ciò che le mafie danno come favore”.
È una frase fondamentale, perché è la prima cosa che le mafie fanno, oggi anche ad altissimo livello e non solo con i disperati dei quartieri disagiati. Il racket è una fornitura di servizi ineccepibile, pagarlo in molte realtà significa che i camion ti arrivano puntuali, che le banche ti aiutano. Le mafie diventano il garante per far avere prestiti alle imprese, che non ci siano furti nei cantieri. Pagare l’estorsione significa comprare un pacchetto di servizi. La frase del generale Dalla Chiesa oggi ha più valore di quando l’ha pronunciata, ed è fondamentale per capire che cosa sono le organizzazioni criminali, che spesso si sostituiscono all’inefficienza della burocrazia dello Stato, grazie ai contatti con i comuni, ai loro uomini nei municipi, tra i vigili urbani. Questa loro tecnica l’hanno portata anche nell’Est Europa, diventando il passepartout anche per le imprese sane, come è avvenuto in Macedonia, in Ungheria, in Albania.

Di cosa hanno bisogno i giovani delle tue terre, delle terre di camorra, mafia, ’ndrangheta?
Due cose: la prima, che sento molto mia, di non essere costretti ad emigrare. L’emigrazione deve essere una scelta, una possibilità per specializzarsi, per migliorarsi, non una necessità, una costrizione. Spesso in queste terre restano quelli che non hanno avuto le qualità per emigrare. O quelli che lo pensano di se stessi. Non deve più essere così. Dal Sud ogni anno emigra la quasi totalità di laurea-ti. La seconda, di poter vivere in una realtà in cui il proprio talento sia spendibile, basta ascoltare qualsiasi ragazzo, che sia chimico o carpentiere, che lavori a Londra o ad Oxford o a Ferrara, che è stato scelto perché bravo, che ha avuto l’occasione di poter mostrare quello che vale. Nel Sud, invece, il talento non basta, deve sempre esserci la protezione, la mediazione, bisogna accontentarsi e poi implorare, il lavoro diventa un privilegio che ti è stato dato, e in cambio devi tacere e accettare quello che ti viene detto. Il lavoro deve essere un diritto e non un privilegio e se quel giovane decide di rimanere al Sud non deve sentirsi uno sconfitto, un fallito.

Hai mai pensato di andare via, di andare all’estero?
Sì. L’ho pensato tantissime volte. Non l’ho fatto finora perché mi sembrava un tradimento. Diceva Paolo Borsellino: “Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio. O si fanno la guerra o si mettono d’accordo”.

Roberto Saviano

Roberto Saviano

Silvio Berlusconi

Silvio Berlusconi

EMILY BRONTË: un’insana pessimista?

N00460_9Io sono l’unica il cui destino
lingua non indaga, occhio non piange;
non ho mai causato un cupo pensiero,
né un sorriso di gioia, da quando sono nata.

Tra piaceri segreti e lacrime segrete,
questa mutevole vita mi è sfuggita,
dopo diciott’anni ancora così solitaria
come nel giorno della mia nascita.

E vi furono tempi che non posso nascondere,
tempi in cui tutto ciò era terribile,
quando la mia triste anima perse il suo orgoglio
e desiderò qualcuno che l’amasse.

Ma ciò apparteneva ai primi ardori
di sentimenti poi repressi dal dolore;
e sono morti da così lungo tempo
che stento a credere siano mai esistiti.

Era già amaro pensare che l’umanità
fosse insincera, sterile, servile;
ma peggio fu fidarmi della mia mente
e trovarvi la stessa corruzione
.

Joseph Mallord William Turner, (Londra, 23 aprile 1775 – Chelsea, 19 dicembre, 1851)

“Buttermere Lake, with Part of Cromackwater, Cumberland, a Shower” – the Tate Gallery

 

Emily Jane Brontë (Thornton, 30 luglio 1818 – Haworth, 19 dicembre 1848), fu scrittrice e poetessa inglese in epoca vittoriana. Famosa per il suo romanzo “Cime Tempestose” (criticato come immorale ai suoi tempi, considerato a posteriori uno dei pochi veri classici della letteratura inglese), pochi la conoscono invece per le sue poesie.

La poesia sopra, in particolar modo, mi ha colpito per la lettura interiore psicologica.

Tanto autentica, quanto, nell’autenticità dei sentimenti, spietata: è più facile, difatti, vivere auto ingannandosi che essere così franchi con se stessi.

Si sa che in linea di massima sono gli ottimisti, coloro che vivono più felicemente, perfino degli stessi realisti. Ottenendo, in taluni campi, risultati migliori.

Ma la sensibilità spesso va a braccetto con la sofferenza e talvolta l’una rafforzando l’altra. Gli artisti non sono famosi per essere degli ottimisti o delle persone che vivono con equilibrio. A volte profondi depressi (Leopardi) o al confine con la follia (Van Gogh).

Tuttavia, se le loro opere sono il risultato, non è sempre solo un male essere realisti o addirittura pessimisti. Non è tutto solo un male a volte nemmeno essere folli, anche se non conviene, se si potesse scegliere, esserlo.

Dipende cosa s’intende per bene e per male. Non tutto ciò per cui sentiamo male fa veramente male, e non tutto ciò per cui sentiamo bene fa veramente bene. Il male e il bene spesso si confondono e si fanno l’occhiolino a vicenda. Spesso c’è anche un sottile piacere nel sentire male: nella tristezza ci permettiamo cose che in altri momenti non ci permetteremmo, nella paura cogliamo il gusto della sfida, nella rabbia tiriamo fuori la grinta. Emozioni tanto importanti da sentire che, alle volte, se stiamo troppo bene, andiamo alla ricerca di qualcosa che ci faccia un po’ male.

La poesia di Emily, inoltre, mi ha colpito per il rigore morale e la drammatica malinconia dei versi, che sembrano appartenere ad una persona che fa il conto della sua vita alla fine di tanti anni vissuti e non ad un’ancor giovane donna.

Del resto quando si legge la sua biografia ci si meraviglia meno di quanto ella va scrivendo.

“La salute di Emily andò via, via indebolendosi, a causa delle malsane condizioni di vita del tempo. Morì di tubercolosi a soli trent’anni, dopo essersi ammalata in occasione del funerale del fratello, morto di delirium tremens nel setttembre dello stesso anno. Il modo, in cui Emily affrontò la malattia, contribuì non poco a consolidarne il mito: Charlotte nelle sue lettere scrisse che la sorella non solo rifiutava medicine e medici, ma si ostinava a voler svolgere tutte le mansioni domestiche, delle quali si era sempre occupata, impedendo a chiunque di darle il benché minimo aiuto, nonostante a volte le mancasse il fiato persino per parlare. Mormorò di essere pronta a vedere un dottore soltanto la mattina di quel 19 dicembre che la vide morire, ridotta a poco più di uno scheletro, assistita dalle due sorelle, fra cui, appunto, Charlotte Brontë, a sua volta famosa per il romanzo “Jane Eyre“.

Bellissima anche la poesia d’amore sottostante.

Verrò quando sarai più triste,
steso nell’ombra che sale alla tua stanza;
quando il giorno demente ha perso il suo tripudio,
e il sorriso di gioia è ormai bandito
dalla malinconia pungente della notte.

 Verrò quando la verità del cuore
dominerà intera, non obliqua,
ed il mio influsso su di te stendendosi,
farà acuta la pena, freddo il piacere,
e la tua anima porterà lontano.

 Ascolta, è proprio l’ora,
l’ora tremenda per te:
non senti rullarti nell’anima
uno scroscio di strane emozioni,
messaggere di un comando più austero,
araldi di me?

Questa poesia mi colpisce sempre per il suo acume e la sua sensibilità psicologica.

Spesso siamo più in contatto con noi stessi, non nei periodi più felici, ma in quelli più dolorosi. E così, spesso, il desiderio di vicinanza emotiva con l’altro si raggiunge profondamente, non nei momenti di tripudio e dalle tante distrazioni esterne, ma in quei momenti in cui, soli con noi stessi, sentiamo la tristezza e gli altri sentimenti dolorosi che ci assalgono.

Ma tutti (specie quelli che sentono di soffrire tanto, come la nostra Emily) abbiamo poi bisogno di leggerezza, di evasione, che sembrano possibili, alle volte, solo abbandonandosi alla fantasia.

Ed ecco, il motivo d’ispirazione, a mio parere, della commovente poesia sottostante (considerando anche la bella anima di Emily, divorata poi nel suo corpo da una malattia allora incurabile).

Più felice sono quando più lontana
porto la mia anima dalla sua dimora d’argilla,
in una notte di vento quando la luna brilla
e l’occhio vaga attraverso mondi di luce

Quando mi annullo e niente mi è accanto
né terra, né mare, né cieli tersi
e sono tutta spirito, ampiamente errando
attraverso infinite immensità.

Non so, se esiste una vita ultraterrena, sono sicura solo che lo spirito di Emily ha vagato e continua a vagare nella sua preziosa e carica leggerezza nei cuori di chi si è commosso e ancor si commuove per i suoi versi, per quanto spesso gravidi di profonda tristezza e intensa disperazione.

Nella non certezza del tutto, fra pessimismo, realismo e ottimismo, se si ha abilità di capire se stessi, c’è spazio per tutti per indirizzare la propria personalità e trovare il proprio campo di espressione.

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