Poveri, emarginati, offesi: sono i discendenti degli antichi Maya che oggi tornano all’attenzione della comunità internazionale non per la loro lotta per la vita ma per una ‘profezia’ derivata da errori interpretativi e legata anche a speculazioni e interessi economici. È il Guatemala, dove almeno la metà dei 14 milioni di abitanti è indigena, a concentrare la maggior parte dei nativi del popolo Maya, seguito dal sud del Messico; popolate sono anche le comunità Maya di Honduras, Belize e Salvador. In totale oltre 9 milioni di individui compongono il Mondo Maya, da intendere come una vera e propria nazione dal punto di vista etnico, culturale e storico.

Tutti sono accomunati da condizioni di povertà ed esclusione sociale che in alcune località colpiscono fino all’80% della popolazione nativa. Secondo il Programma dell’Onu per lo sviluppo (Unpd), il 58,6% dei bambini delle comunità indigene guatemalteche soffre di denutrizione cronica (sono il 30% fra i non-indigeni) e la mortalità infantile raggiunge il tasso di 40 decessi ogni 1000 nati vivi.

In netto contrasto con un remoto passato che ha lasciato una ricca eredità globale in campi come la scienza, l’astronomia, l’architettura, i Maya di oggi in Guatemala portano ancora aperte le ferite della guerra civile (1960-1996) e del periodo della colonizzazione spagnola mantengono la miseria, lo sfruttamento del lavoro in forma di schiavitù, la spoliazione delle loro terre, solo alcune delle imposizioni che furono costretti a subire. “Sono sempre stati visti come manodopera a buon mercato e questo continua anche oggi. Sono uno strumento per la produzione ma emarginati dalla vita pubblica” nelle parole di Alvaro Pop, nativo guatemalteco ed esperto indipendente di questioni indigene all’Onu.

Abbandono dello Stato, mancato accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria, ai servizi di base, in un paese che non riconosce ufficialmente le loro lingue originarie, restano denunce prive di risposte per un popolo che ha subito una vera e propria politica di sterminio nell’arco del conflitto interno tra l’esercito e le guerriglie di sinistra, ispirate anche dagli abusi subiti dai nativi. Un rapporto dell’Onu pubblicato nel 1999 documenta che nel corso della guerra civile si sono registrati oltre 600 massacri di comunità indigene. Non sono stati risparmiati anziani, donne e bambini. Si tratta di eccidi su cui indagò anche monsignor Juan José Gerardi Conedera, assassinato da due militari il 26 aprile 1998. Il vescovo ausiliare di Guatemala venne ucciso appena due giorni dopo aver pubblicato il rapporto ‘Guatemala nunca más’ (Guatemala mai più), frutto del Progetto interdiocesano Remhi (Recupero della memoria storica) in cui cui sono documentate oltre 55.000 violazioni dei diritti umani perpetrate durante il conflitto, l’80 % delle quali attribuite all’esercito.

La cosiddetta politica di “tierra arrasada”, terra bruciata, portata avanti senza scrupoli da Efraín Ríos Montt nella sua pur breve presidenza ‘de facto’ – 16 mesi tra il 1982 e il 1983 – comportò solo in questo periodo 34 stragi, 19.000 omicidi, 600 centri abitati rasi al suolo.

“Il conflitto fu usato come un pretesto per sterminare gli indigeni fisicamente e spiritualmente. Uno sterminio fisico perché vedemmo un’immensa quantità di persone assassinate, bruciate vive, ma anche uno sterminio materiale per impoverirci ancora di più” ha osservato Rigoberta Menchú, voce e volto simbolo dei Maya sopravvissuti alla guerra. Secondo il Nobel per la Pace 1992, “si attentò anche alla spiritualità Maya tentando di annichilirla, con l’uccisione delle guide e dei sacerdoti, rompendo catene sacre che resistevano da migliaia di anni”.

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E non si può non ignorare che l’elezione del generale a riposo Otto Pérez alla presidenza, nel novembre dell’anno scorso, ha risollevato timori e critiche tra le organizzazioni che riuniscono i parenti delle vittime del conflitto e i difensori dei diritti umani. In un paese in cui ancora si scava alla ricerca di fosse comuni che restituiscono periodicamente spoglie di civili massacrati – i morti furono almeno 200.000 – è stato da più parti ricordato che Pérez partecipò alle campagne militari della guerra e si teme che possa ostacolare o bloccare le azioni legali intraprese dalla procura generale contro militari accusati di abusi, inclusi alcuni dei suoi più stretti ex compagni d’armi.

Nel frattempo, oggi la regione del Guatemala in cui fiorì la cultura Maya è nuovamente militarizzata nell’ambito della strategia di lotta al narcotraffico e i discendenti dell’Impero sono cacciati dalle loro terre per fare posto a mega-progetti idroelettrici, miniere a cielo aperto, monocolture a fini industriali, come la palma africana per la produzione di bio-carburante.

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