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Rajasthan Roots

Frequenze umane

Ecco gli italiani dai piedi leggeri

copioincollo qui di seguito un interessante articolo di La Cecla pubblicato sul “il sole 24 ore” questo primo agosto:

ECCO GLI ITALIANI DAI PIEDI LEGGERI

C’è una nuova classe, apparentemente invisibile, che si sta formando da circa vent’anni, una classe che non fa parte della borghesia italiana, che non rientra nell’esercito di precari, né in quello dei raccomandati per famiglia, politica, censo e appartenenza. È una strana compagine di quarantenni, trentenni, ventenni che ha abbandonato l’Italia appena finiti gli studi, o addirittura durante gli studi, fulminata sulla via dell’Erasmus dalla scoperta che la vita all’estero, in Europa, poteva essere tre volte più interessante, facile, appassionante che in Italia. Non si tratta di emigrati nel vero senso della parola e nemmeno di una fuga di cervelli, ma di italiani, ragazzi e ragazze, uomini e donne che stanno all’estero in Europa «come se fossero in Italia».

Hanno scoperto che le complicazioni burocratiche, il clima fatiscente e ricattatorio dell’università italiana, lo strangolamento delle potenzialità giovanili è una malattia solo italiana e semplicemente, rapidamente si sono messi in salvo con un’ora di aereo, chi a Barcellona, chi a Berlino, chi a Parigi, chi ad Amsterdam e altri in Polonia, Portogallo, a Londra, e perfino a Riga e Vilnius.
Io che sono più anziano di loro, ho scoperto a un certo punto che era stupido vivere in una città cara e inefficiente come Milano e che Parigi offriva molto di più con un costo della vita molto inferiore e un’apertura al mondo impossibile a Milano. Quando mi chiedevano dieci anni fa perché stessi a Parigi rispondevo: «È l’unica città italiana che funziona». E non era una battuta, davvero per me Parigi era quello che l’Italia poteva essere se non fosse stata governata negli ultimi cinquant’anni da una classe dirigente che faceva e fa di tutto per restare indietro rispetto all’Europa e al mondo.
La mia era una protesta contro le regole ridicole di una società, quella italiana, che umiliava il merito e ignorava la globalizzazione con un disprezzo verso la cultura, gli intellettuali, i ricercatori. Ricordo ancora l’incredibile piacere di essere chiamato da agenzie sconosciute, da datori di lavoro mai visti, da centri di ricerca i cui direttori non mi avevano mai invitato a cena, ma avevano letto le mie ricerche. Che felicità essere giudicato dal proprio fare e non dalla propria rete di compiacenti alleati!

Quella che mi sembrava una scelta individuale era già invece la scelta di migliaia di architetti, esperti di comunicazione, curators d’arte, videoartisti, fotografi, psicologi, antropologi, registi, artisti, musicisti, danzatori e danzatrici. Il mio amico Emiliano Armani, piacentino, stava da quindici anni a Barcellona. Vi era andato a cercare una formazione in Italia impossibile, quella nello studio del grande Miralles che ti prendeva in stage, ma ti pagava anche. Incredibile per un giovane architetto che era abituato ad essere sfruttato dagli studi milanesi o a volte dover pagare per lavorare in un’agenzia di una grande firma. Emiliano sta ancora a Barcellona, la situazione è cambiata, un po’ più difficile, oggi con la crisi, ma non ha la più vaga intenzione di tornare in Lombardia.
È lui però a dirmi che in realtà ha scoperto di essere italiano proprio a Barcellona. Perché, dice, gli italiani in Italia sono individualisti e non fanno quasi mai gioco di squadra, è solo all’estero che scoprono di avere qualcosa di particolare che li distingue dagli altri, un’italianità che gli “altri”, gli “stranieri” riconoscono subito e che è considerata una qualità e non solo un tic nervoso. E ribadisce che Barcellona per lui è una città italiana, nel senso che lui ci si muove pensando di restare italiano, di non perdere i contatti con l’Italia. Ma è da Barcellona che può agire con una libertà e una creatività che in patria sarebbe solo punita come impertinenza giovanile e incapacità di rispettare faccendieri, speculatori, malavitosi e politici ignoranti.

Michele Ferrà è un siciliano che si è trasferito a Berlino per impiantare una casa di produzione di video e film. Berlino gli dà la tranquillità, l’efficienza, la convenienza – qui la vita costa quattro volte meno che in Italia – e una rete mondiale di contatti. Michele rimane siculo e palermitano fino in fondo, ma non tornerebbe mai a Palermo, città a cui non perdona il carattere nero, spaventosamente squallido e corrotto, la voragine della connivenza mafiosa e l’incapacità di sperare e di fare. Eppure lui non diventerà berlinese, né americano – paese in cui va spesso – né thailandese, paese in cui gira i suoi film.
Matteo Pasquinelli è un ricercatore nel campo dei mass-media e dei cultural studies. Ha fondato Rekombinant, è una delle persone più informate e preparate sul mondo del web, della trasformazione post-globale, delle mutazioni del neo-capitalismo. Pensate che gli abbiano mai offerto nulla in Italia? Pensate che l’Università di Bologna gli abbia spalancato le porte dei laboratori? Ma nemmeno per sogno. Allora sono dieci anni che vive sostenuto da istituzioni britanniche, olandesi, tedesche e che continua a inventare analisi della situazione reale, a scrivere sulle riviste specializzate, ad aprire siti. Lui non diventerà olandese, né tedesco perché è indelebilmente uno spinozista romagnolo, epicureo riminese, nelle sue valigie stipa, a ogni ritorno, farina di castagne dell’Appennino e sangiovese.

Quando andiamo a spasso in una delle sue città europee alla ricerca di un ristorante che non ci faccia troppo sentire la nostalgia a me della caponata e a lui della piadina, ho l’impressione che qualcosa di differente sta accadendo a una parte d’Italia. Queste persone e molte, moltissime altre sono l’Europa, senza bisogno di troppi discorsi e teorie, e hanno capito qualcosa che i teorici dell’Europa non hanno mai capito: che l’euro e l’Europa sono la possibilità di restare italiani, greci, spagnoli, francesi senza essere umiliati dalle stupide politiche nazionali dei rispettivi paesi. Essere europei significa mantenere una propria identità senza doverla confondere con un’appartenenza a una classe dirigente che in patria blocca i processi d’apertura e trasformazione.
Ovviamente questo è il quadro positivo, profondamente innovatore di questa compagine di nuovi europei, sono quello che George Steiner chiama “luftmenschafte”, uomini dai piedi leggeri, una definizione sprezzante con cui i nazisti appellavano gli ebrei e tutti i cosmopoliti. La parte tragica sta nel fatto che questo è il risultato di un’espulsione: per l’Italia si tratta della liquidazione di una potenziale classe dirigente di professionisti, pensatori, ricercatori, imprenditori. E questa è davvero una tragedia: ognuno dei miei amici italiani in Europa condivide amari ricordi di strade bloccate, di rifiuti, di offerte di lavoro ricattatorie, di posti universitari in cambio di una beota fedeltà alla noia accademica.
Allora stare in Europa è diventata anzitutto una forma di cura, un dirsi: ma no, ma no, il mondo non può essere così meschino, c’è merito, speranza, possibilità di trovare persone con cui costruire assonanze e con cui inventare, sperimentare, creare senza il peso di coloro che hanno sempre fatto sì che il mondo dovesse sembrare solo un circolo chiuso e vizioso.

Corea del Nord : un occhio dentro alla dittatura totale

20+ milioni di persone PRIGIONIERE del delirio di onnipotenza della famiglia Kim…averne sentito lontanamente parlare è veramente insufficiente per avere una idea di cosa è la Corea del Nord.
Ho trovato questo documentario. E’ assolutamente DA VEDERE. Prendetevi il tempo necessario.
Sapere per poter capire.
Buona visione:

http://en.wikipedia.org/wiki/North_Korea

http://en.wikipedia.org/wiki/Kim_Il-sung

Tentativi di misurare la FELICITA’

Sei felice? Domanda impegnativa, a cui, probabilmente, verrebbe da rispondere “sì” solo un paio di volte nella vita, in momenti di particolare esaltazione. Eppure, è su domande come questa che la “scienza triste”, come gli anglosassoni chiamano l’ economia, lavora per uscire dalla prigione che lei stessa si è creata: la prigione del Pil. Dagli anni ‘ 30 del secolo scorso, i numeri del prodotto interno lordo sono diventati l’ indicatore principe, a volte esclusivo, dello stato di un paese e del benessere dei suoi abitanti. Sommando la quantità e il valore dei beni e dei servizi prodotti in un paese (o, viceversa, i redditi dei suoi abitanti), il Pil è, in effetti, un efficiente termometro dello stato di un’ economia. Un solo, magico, numero, che riassume milioni di numeri e che consente di fare paragoni e confronti fra diversi paesi e diversi periodi, di misurare ritmo e entità dello sviluppo. Il problema è che il prodotto interno lordo nulla ci dice di come effettivamente viva la gente, per non dire della sua felicità. Non ci dice neanche – da solo – se è aumentato perché i ricchi sono diventati più ricchi o i poveri meno poveri. Il presidente francese, Sarkozy, ne ha fatto un motivo di campagna contro la “tirannia” del Pil, probabilmente nella convinzione (in larga misura, peraltro, errata) che indicatori diversi consentirebbero alla sua Francia di risalire nelle classifiche mondiali. Sarkozy, tuttavia, ha buone ragioni dalla sua parte: la Corea del Sud, dal 1960, ha aumentato di 200 volte il prodotto interno lordo, ma questo non ha impedito al tasso di suicidi di raddoppiare. Il Pil, insomma, fornisce un’ immagine parziale e deformata di una società. Ce lo diceva già, quarant’ anni fa, l’ indimenticato Robert Kennedy: “Il Pil misura tutto, tranne le cose per cui vale la pena vivere”. Il paradosso del Pil è nella sua natura, indifferente al contenuto: raddoppiate il numero di testate atomiche, di anidride carbonica sputata nell’ atmosfera, di bare per un’ epidemia e il prodotto interno lordo sale di conseguenza. Siamo felici, dunque? In effetti, più di quanto si direbbe a prima vista. Nei sondaggi mondiali, in media una persona ogni 6-7 dichiara di essere al “massimo livello di felicità”, concetto relativo, ma pur sempre significativo. Lavorando su questi dati, l’ economista Ruut Veerhoven, dell’ università di Rotterdam, aggiorna costantemente il suo “Database mondiale della felicità”. Da buon economista, Veerhoven non si accontenta del dato grezzo, ma lo seziona e lo manipola per spremerne il massimo. Abbiamo, dunque, un primo indicatore, che ci dà la felicità media di una popolazione (su una scala da 0 a 10). Su 142 paesi, l’ Italia è al posto 40, la Francia al 44, gli Usa al 20. Ma la felicità conta quando dura e Veerhoven ci fornisce anche la classifica degli “Anni di vita felice”, ottenuta moltiplicando il livello di felicità per gli anni di aspettativa di vita. Negli Usa sono 58, in Italia 54, in Francia 52. La felicità media, naturalmente, non è uguale per tutti e Veerhoven registra le differenze all’ interno delle singole popolazioni. Il paese in cui la felicità è distribuita più equamente è l’ Olanda. Gli Usa sono al posto 26, l’ Italia al 32, la Francia al 74, a metà classifica. L’ ultimo indicatore non può dunque che essere la felicità, ponderata per l’ ineguaglianza. I paesi che meglio combinano livello di felicità e sua distribuzione sono il Costa Rica e la Danimarca. Gli Usa fanno meglio dell’ Italia, che fa meglio della Francia. La felicità, peraltro,è un concetto sfuggente e ancor più lo è la percezione della propria felicità. Se quello che vogliamo misurare non è la potenza di fuoco di un’ economia, ma il progresso umano e civile, oltre che economico, di una società, i sondaggi non bastano. Ha detto Enrico Giovannini, oggi presidente dell’ Istat: “Reddito, ma anche lavoro, inflazione, eguaglianza economica e sociale, tempo per le relazioni umane. Molti parametri contribuiscono alla felicità, intesa non come uno stato, un fatto strettamente personale, ma una categoria più ampia di benessere, che vada oltre la mera misurazione del reddito”. E qui le cose si complicano. Negli ultimi anni, organizzazioni internazionali, come l’ Ocse e la World Bank, sofisticati think tank hanno moltiplicato i convegni volti a individuare indicatori che misurino il progresso, anziché solo lo sviluppo. Si parla di “Felicità nazionale lorda”, di “felicità economicamente sostenibile”. C’ è anche una nuova scienza apposita: la “sociestica” (o comunque vogliate tradurre il francese “sociestique”). Dietro questo spostamento di fuoco ci sono grandi trasformazioni mondiali, come la relativa diffusione dello sviluppo, che l’ ha reso una necessità meno urgente e imperativa. E anche fenomeni sociali, come l’ ubiqua ombra dei baby boomers. Dice Yoshizoe Yazuto, capo dell’ Istat giapponese: “Con i baby boomers in pensione, le attività non economiche – come i divertimenti e il volontariato – diventeranno sempre più importanti”. Festival e occasioni di impegno sociale diventeranno leve di benessere. A questo punto, però, per orientarsi e individuare un indicatore di felicità che assorba il Pil, e cioè lo sviluppo economico, senza perderlo del tutto di vista, servirebbero Aristotele o K a n t , o a l m e n o J e r e m y Bentham, piuttosto che Keynes o Malthus. Perché gli economisti ragionano sull’ astratta razionalità umana, ma l’ “homo oeconomicus” non è l’ uomo felice. Due ricercatori del Mit, Abhijit Banerjee e Esther Duflo hanno dimostrato che, spesso, i poveri non compiono scelte economicamente razionali (tipo un nuovo fertilizzante) perché temono che possano cambiare il loro stile di vita. Ovvero, i soldi non fanno la felicità. Non è il solo luogo comune, vecchio proverbio, finale di vecchio film americano, in cui ci si imbatte. Leonardo Bechetti, dell’ Università di Roma, spiega che il divario di reddito fra Nord e Sud, in Italia, non si replica in un divario di felicità. Del resto, nei paesi ricchi, il 15,84 per cento di chi risponde ai sondaggi dichiara di avere “il massimo livello di felicità”. Ma nei paesi meno ricchi la percentuale è poco distante: il 13,47 per cento. Ovvero, i soldi non sono tutto. Ancora, sempre secondo Bechetti, “le classi di reddito più alte dedicano molto meno tempo alle relazioni interpersonali, con effetti negativi sulla felicità individuale”. Ovvero, i soldi non comprano gli amici. Questo, naturalmente, dimostra solo che i vecchi proverbi e i film di Frank Capra sono veri. Ma come uscirne con qualcosa che ci dica non solo che abbiamo più soldi, ma che viviamo meglio? Il regno del Bhutan, sull’ Himalaya, è l’ unico paese in cui si calcola regolarmente l’ Indice nazionale lordo di felicità. La Fnl, felicità nazionale lorda, è come il Pil, un numero unico. E’ basato sul calcolo di indicatori sia oggettivi che soggettivi, dato che, in base ai principi buddisti, fra le due categorie non c’ è differenza. In termini semplici, significa che, se si costruisce un ospedale, si misura anche la percezione psicologica che ne hanno gli utenti. Se non aumenta o non diminuisce il loro benessere, non conta. Finora, nessuno ha seguito l’ esempio del Bhutan. Ma un tentativo ambizioso e robusto di misurare non la felicità e neanche il progresso, ma lo “sviluppo umano” è stato concepito, senza scomodare il buddhismo, poco lontano. E’ l’ Indice di sviluppo umano dell’ Onu e uno dei padri è l’ indiano Amartya Sen. L’ indice di sviluppo umano combina sostanzialmente tre fattori: l’ aspettativa di vita, l’ alfabetizzazione degli adulti e il tasso di scolarizzazione dei giovani, il Pil pro capite, a parità di potere d’ acquisto. Sen non ne era troppo soddisfatto, lo trovava semplicistico. Ma è un numero che cattura molte cose. L’ Onu lo pubblica ogni anno. Nell’ ultimo, dell’ ottobre 2009, ai primi due posti dello sviluppo umano ci sono Norvegia e Australia. La Francia è ottava. Gli Usa tredicesimi. L’ Italia diciottesima. – MAURIZIO RICCI

Articolo pubblicato su Repubblica – 14 gennaio 2010 –
qui il link

TripFilms.com (consigli turistici attraverso i filmini delle vacanze)

Se volete vedere un video sulla vostra prossima destinazione allora vi consiglio di visitare…
TripFilms.com
Sito dove i viaggiatori possono caricare i propri video di viaggio, dando cosi un proprio contributo visivo.
Se fosse tardi, ciao!!

SpottedByLocals.com (il turismo consigliato da chi ci abita)

Se pensate di visitare una citta’ in un futuro prossimo o pensate di poter dire la vostra riguardo la vostra citta’ allora questo sito potrebbe esservi utile:
Spotted By Locals
Potrete trovare e dare informazioni riguardo molte categorie: musei, ristoranti, negozi..
Consigli da insider.

Aborto in caso di malformazione dell’embrione/feto

CuboSphera come luogo di scambio. E’ dunque qui che mi rivolgo a voi per conoscere le vostre idee ed opinioni su un argomento piuttosto delicato. L’aborto in caso in di malformazione dell’embrione/feto.

Cosa ne pensate a riguardo? Se durante la gravidanza scoprite che il vostro embrione/feto avra’ malformazioni fisiche o mentali alla nascita, secondo voi quali potrebbero essere le vostre reazioni?

Quali sarebbero i fattori influenzanti le vostre decisioni?

Certamente nessuno vuole una vita difficile per il proprio figlio e per se stessi, ma e’ quasi automatico pensare a persone come Stephen Hawking ed altri con problemi gravi che conducono una vita molto attiva.

Adottereste voi un bambino con problemi?

Piu’ volte ho sentito amici/conoscenti esprimere preferenze per la procreazione dei propri figli rispetto l’adozione. Questo suffragato dal fatto che con l’adozione non si sa mai quali geni il figlio adottivo possa portare con se. E’ questa una opinione condivisa da molti? La domanda che mi sorge istantaneamente e’: cosa mi fa pensare che i miei geni siano migliori di quelli di un altro individuo? Sapete rispondere?

Grazie per condividere le vostre opinioni.

la spesa la metto nello zaino

Sono giovane e in forma e la spesa la trasporto con lo zaino.
Risparmio sacchetti, mi rimangono le mani libere, uso l’autobus o la bicicletta comodamente e si fa moolta meno fatica con lo zaino rispetto ai sacchetti.
Sì certo devo “programmare” gli acquisti e uscire di casa apposta con lo zaino vuoto.

Provateci, vedrete che differenza!!!

dall’oliva all’olio

Olio d’oliva extra vergine.Olio di Oliva

Per poter chiamarsi tale la temperatura di spremitura deve essere inferiore ai 50° C.
In realta’ le spremiture degli oli extra vergini di qualita’ non viene mai fatta a temperature superiori ai 37°/40° C.

Per ottenere 1Kg di olio extra vergine di oliva servono da un minimo di 3Kg di olive delle piu’ succose fino a 10Kg per quelle con meno polpa.
Tipicamente quest’ultime sono delle olive molto piccole ed il nocciolo incide molto sul peso dell’oliva.
Esistono molte varieta’ di ulivi è quindi difficile dare dati corretti sulla superficie necessaria per albero e quantita’ di olive prodotte da ciascun albero, soprattutto in luce del fatto che le annate variano molto in termini di produzione ma si puo’ dire che un albero fa mediamente 30Kg di frutto.

I costi si misurano soprattutto in fatica e ore spese pulire gli uliveti ed a tagliare i rami degli alberi che richiedono un forte ringiovanimento dopo la raccolta. Esempio. Un uliveto di 400 alberi puo’ impegnare per un giorno ottanta tagliatori esperti o per ottanta giorni uno dei suddetti tagliatori.

parcheggio gratis a Orio al Serio (aeroporto di Bergamo)

Parcheggiare l’automobile gratis all’aeroporto di Bergamo (Orio al Serio) e’ possibile!

Basta lasciarla all’Orio Centre (centro commerciale di fronte all’aeroporto).
Si raggiungere il terminal in 5/10 min di cammino seguendo gli appositi segnali.

Il parcheggio del centro commerciale non è sorvegliato.

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