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Class Action inutilizzabili in Europa

A dirlo è Viviane Reeding in persona, commissaria UE Giustizia e Libertà civile, che ha addotto a motivazione della decisione l’ attuale crisi economica. Un annuncio che ha causato un terremoto nel mondo dei consumatori, che aspettano da più di 15 anni una legislazione di risarcimento collettivo a livello comunitario. La class action è considerata lo spauracchio delle grandi aziende perché in grado di metterle sullo stesso piano dei singoli cittadini davanti ad una corte di tribunale.

Negli Stati Uniti d’ America, dove la class action è in vigore dal 1965, migliaia di cittadini hanno ottenuto risarcimenti milionari da multinazionali come General Motors, Chevrolet Corvait, Ford e Philip Morris.
Proprio alcuni rappresentati dell’ industria statunitense, secondo quanto riferito dalla Reeding, hanno sconsigliato alla Commissione di introdurre una simile legislazione in Europa in tempo di crisi, pena la contrazione degli investimenti nel vecchio continente.
Pessima la reazione dei consumatori che hanno parlato di «illegittima intromissione statunitense».
Monique Goyens, direttore generale Beuc (The European Consumers’ Organisation), ha mandato una lettera di protesta alla Reding e al presidente della Commissione Barroso, ricordando che «la stessa Commissione ha stimato che in Europa i danni ai consumatori dovuti a pratiche commerciali scorrette vanno dai 25 ai 69 miliardi di euro l’anno».
La stessa Commissione aveva redatto negli anni passati un Green Paper che faceva tesoro dell’ esperienza positiva di alcuni Stati membri dove una forma di class action è già in vigore, come in Spagna, Portogallo e Svezia.
In Italia la class action, introdotta dal Governo Prodi a fine del 2007 e modificata dal Governo Berlusconi, rappresenta, secondo le associazioni dei consumatori , un’ arma completamente spuntata.
«La mancanza di retroattività, di sanzioni punitive, gli alti costi di attivazione e la mancanza di possibilità per le associazioni di adirne l’ inizio, la trasformano in una class action all’italiana», afferma Monica Multari, presidente del Movimento Consumatori Verona.
Infatti la class action così come introdotta nell’ ordinamento italiano non può essere usata per risarcire i risparmiatori vittime dei crack Cirio, Parmalat e Lehman Brothers.
Ad ogni modo, la levata di scudi dei consumatori di tutta Europa potrebbe indurre la Commissione a tornare sui propri passi e a rilanciare le consultazioni.
Ma anche in questo modo l’ introduzione effettiva della class actrion a livello europeo subirebbe un ritardo rilevante.

SCUOLA – modelli europei di sistemi scolastici

Modelli europei di sistemi scolastici

Esistono quattro modelli di sistemi educativi, presenti in Europa, secondo un’utile tipologia realizzata dalla studiosa in Sociologia della Scuola Francine Vaniscotte. Ben lontani dal sostenere che esiste una ed un’unica soluzione, migliore delle altre sempre in tutto e per tutto, il modello scandinavo appare sotto molteplici punti di vista come quello che andrebbe preso come termine di riferimento. Tale affermazione è supportata anche dai risultati ottenuti attraverso le ricerche centrate sulla valutazione internazionale delle competenze acquisite dagli studenti (PISA – Programma per la valutazione internazionale dell’allievo – Programme for International Student Assessment). Va però evidenziato che, limitatamente al primo ciclo scolastico (Scuola Primaria o Ex Elementare), nelle ultime 6 valutazioni internazionali i migliori risultati sono stati ottenuti dalla Scuola Italiana pre-riforma!

Tipo scandinavo: la scuola unica

Questo modello (presente in Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia) si pone come obiettivo prioritario la maggior eguaglianza di opportunità, fornendo a tutti i bambini la stessa preparazione fino ai 16 anni di età, cioè per tutto l’obbligo scolastico. Si tratta di una scuola unica nel senso che tutti gli studenti, nella stessa scuola, ricevono il medesimo insegnamento, da un gruppo di docenti che, per quanto possibile, rimane lo stesso per tutto il periodo. In questo modo si cerca di assicurare la massima continuità pedagogica: solo alla fine del percorso è possibile scegliere qualche disciplina diversa e vengono date valutazioni (da 1 a 5). Inoltre si vuole ottenere che tutti i ragazzi, al termine, raggiungano le stesse conoscenze di base che sono connesse, appunto, al significato dell’obbligo scolastico: i saperi necessari ad una cittadinanza piena, per potersi inserire in modo idoneo in una società democratica. In quest’ottica le votazioni (e le conseguenti bocciature) non hanno significato: non vi è insuccesso scolastico e i risultati vanno nel senso di una buona uguaglianza di acquisizioni scolastiche generalizzate, con livelli qualitativi elevati; sembra, perciò il modello più idoneo a realizzare una scuola «giusta ed efficace», come del resto confermano le comparazioni internazionali.

Tipo anglosassone: la scuola polivalente

È il modello dell’Inghilterra, del Galles, dell’Irlanda del Nord, della Scozia e, con qualche differenza, della Repubblica d’Irlanda. La Comprehensive School (scuola polivalente) invece di unificare primario e secondario inferiore, ricerca una continuità tra quest’ultimo e il secondario superiore, con programmi che si possono scegliere da parte di allievi e famiglie, ora però più limitatamente, poiché nel 1988 è stato definito un National Curriculum. In Inghilterra permane un piccolo numero di scuole tradizionali, che mantengono la vecchia distinzione fra Grammar Schools, Modern Schools e Techical Schools, alle quali accedono i bambini delle “famiglie bene”. Il sistema del tutorato costituisce il principale supporto al miglior funzionamento, in termini di eguaglianza e qualità del sistema. Il docente tutore guida l’allievo nel suo percorso scolastico, si preoccupa che l’insegnamento sia differenziato e perfino individualizzato ed aiuta i bambini in difficoltà (in Scozia vi è la figura del docente itinerante, che assicura sostegno aiutando colleghi e allievi che ne hanno bisogno). Anche in questo caso, pur procedendo a valutazioni degli allievi, non sono previste ripetenze: pur con una struttura diversa vi è un’“aria di famiglia” con il modello scandinavo, che deriva probabilmente dalla comune religione protestante (Irlanda esclusa, ovviamente).

In Scozia il decentramento, già tipico di questo sistema, rimane più ampio, non essendo, tra l’altro, stato adottato il curriculum nazionale.

Tipo germanico: gli indirizzi separati

Questo modello, presente in Austria, Germania, Lussemburgo, Olanda, Svizzera e, con differenze, in Belgio, mantiene la tradizionale suddivisione in tre indirizzi. Negli ultimi anni alcuni paesi hanno cominciato a preoccuparsi di una suddivisione degli studenti così precoce (all’inizio della secondaria inferiore, come era in Italia prima del 1962) e cercano di sviluppare un sistema di passerelle fra gli indirizzi. L’opzione fra indirizzi differenziati rimane comunque il fondamento di questo modello, che ha in Germania la sua massima espressione. Il bambino tedesco, entrato nella scuola a 6 anni, dopo 4 anni di studio (con qualche differenza secondo i Landers), deve scegliere che strada intraprendere, anche se, teoricamente, sarebbero ancora possibili delle passerelle fra i 10 e i 12 anni di età. Oltre un terzo accede alla formazione corta (Hauptschule), seguita da una preparazione professionale che introduce al lavoro, con una alternanza con periodi di studio, fino ai 18 anni (è il sistema duale, tanto ammirato in Italia, ma, oggi, messo in discussione nella stessa Germania, perché, con la crisi economica succeduta all’unificazione, le imprese non sono più in grado di offrire abbastanza stages formativi e la disoccupazione è molto aumentata). Un quarto dei ragazzi va verso una scuola media (la Realschule), che permette di accedere ad una formazione superiore, però solo di tipo non universitario. Un poco più di un quarto degli studenti si iscrive alla scuola secondaria generale (il Gymnasium), per seguire un curricolo che lo condurrà agli studi universitari. La logica di questo modello è opposta a quella dei sistemi scandinavi: in questi ultimi si vuole portare tutti i ragazzi allo stesso livello a 16 anni, con ancora tutte le strade aperte, mentre in Germania l’orientamento molto precoce porta ad una situazione che, se dà assicurazioni sul futuro, le fornisce con modalità fortemente condizionate dall’estrazione sociale. Certo l’insuccesso scolastico non costituisce un problema, visto che gli studenti vengono quasi subito suddivisi in livelli differenziati, partecipando a scuole che richiedono prestazioni molto diverse. L’autonomia scolastica, nonostante il decentramento strutturale derivante dallo Stato federale, non è molto ampia: il centralismo dei Landers (e la eventuale costruzione di un’Europa delle regioni corre appunto questo rischio), non sembra lasciare molto spazio alla libertà di gestione delle singole scuole. L’ultima indagine comparativa sui risultati dei ragazzi quindicenni ha visto, per gli studenti tedeschi, un risultato non solo inferiore alla media, ma con differenziazioni fra i migliori e i peggiori molto ampie: poca qualità e ancor minore equità.

Tipo latino e mediterraneo: il tronco comune

Quest’ultimo modello, presente in Francia, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna, sembra un tentativo di combinare i precedenti, i quanto ha scelto la soluzione di realizzare una scuola unica per la prima parte della secondaria, ma senza una effettiva pedagogia differenziata (come in Scandinavia) e senza il tutorato (come nei paesi anglosassoni). Invece rimane in questa tradizione (sono tutti paesi cattolici tranne la Grecia, ortodossa) un fondamentale “classicismo”, che li rende molto attenti all’acquisizione di conoscenze, con esami e ripetenze. In alcuni paesi, ad esempio in Francia, rimangono anche degli equivalenti parziali degli indirizzi, con classi di livello, scelte di lingue straniere, sistemi di opzione.

I Paesi latini sono generalmente più sensibili all’insuccesso scolastico contro il quale lottano e per parecchie ragioni: democratizzazione più tardiva e/o condizioni economiche meno favorevoli per certi Paesi, ma soprattutto volontà di portare l’insieme della popolazione scolastica al livello di conoscenza più alto possibile. Sono forse i Paesi che si trovano più a disagio nel loro sistema educativo poiché, sebbene molto diversi tra loro, perseguono l’ideale egualitario della scuola unica scandinava, mentre per tradizione pedagogica, hanno spesso un’uniformità di metodi e delle esigenze che si traducono in frequenti controlli delle conoscenze, in vincoli di esami e di voti e in una maggiore consuetudine di ripetenza.

Questi paesi, tradizionalmente centralistici, stanno procedendo a decentramenti abbastanza ampi, che esaltano l’autonomia delle scuole, pur mantenendo programmi comuni piuttosto vincolanti.

L’esposizione sintetica di questa tipologia, del resto necessariamente schematica, chiarisce però bene che le differenze strutturali esistenti fra i diversi modelli rispondono a logiche profondamente radicate, per cui sembra impossibile, e addirittura sbagliato, pensare ad una uniformizzazione europea, anche se alcuni elementi di convergenza esistono, indotti dall’economia e dalla domanda di formazione, come la generalizzazione dell’istruzione secondaria superiore e la massificazione di quella superiore.

Ecco gli italiani dai piedi leggeri

copioincollo qui di seguito un interessante articolo di La Cecla pubblicato sul “il sole 24 ore” questo primo agosto:

ECCO GLI ITALIANI DAI PIEDI LEGGERI

C’è una nuova classe, apparentemente invisibile, che si sta formando da circa vent’anni, una classe che non fa parte della borghesia italiana, che non rientra nell’esercito di precari, né in quello dei raccomandati per famiglia, politica, censo e appartenenza. È una strana compagine di quarantenni, trentenni, ventenni che ha abbandonato l’Italia appena finiti gli studi, o addirittura durante gli studi, fulminata sulla via dell’Erasmus dalla scoperta che la vita all’estero, in Europa, poteva essere tre volte più interessante, facile, appassionante che in Italia. Non si tratta di emigrati nel vero senso della parola e nemmeno di una fuga di cervelli, ma di italiani, ragazzi e ragazze, uomini e donne che stanno all’estero in Europa «come se fossero in Italia».

Hanno scoperto che le complicazioni burocratiche, il clima fatiscente e ricattatorio dell’università italiana, lo strangolamento delle potenzialità giovanili è una malattia solo italiana e semplicemente, rapidamente si sono messi in salvo con un’ora di aereo, chi a Barcellona, chi a Berlino, chi a Parigi, chi ad Amsterdam e altri in Polonia, Portogallo, a Londra, e perfino a Riga e Vilnius.
Io che sono più anziano di loro, ho scoperto a un certo punto che era stupido vivere in una città cara e inefficiente come Milano e che Parigi offriva molto di più con un costo della vita molto inferiore e un’apertura al mondo impossibile a Milano. Quando mi chiedevano dieci anni fa perché stessi a Parigi rispondevo: «È l’unica città italiana che funziona». E non era una battuta, davvero per me Parigi era quello che l’Italia poteva essere se non fosse stata governata negli ultimi cinquant’anni da una classe dirigente che faceva e fa di tutto per restare indietro rispetto all’Europa e al mondo.
La mia era una protesta contro le regole ridicole di una società, quella italiana, che umiliava il merito e ignorava la globalizzazione con un disprezzo verso la cultura, gli intellettuali, i ricercatori. Ricordo ancora l’incredibile piacere di essere chiamato da agenzie sconosciute, da datori di lavoro mai visti, da centri di ricerca i cui direttori non mi avevano mai invitato a cena, ma avevano letto le mie ricerche. Che felicità essere giudicato dal proprio fare e non dalla propria rete di compiacenti alleati!

Quella che mi sembrava una scelta individuale era già invece la scelta di migliaia di architetti, esperti di comunicazione, curators d’arte, videoartisti, fotografi, psicologi, antropologi, registi, artisti, musicisti, danzatori e danzatrici. Il mio amico Emiliano Armani, piacentino, stava da quindici anni a Barcellona. Vi era andato a cercare una formazione in Italia impossibile, quella nello studio del grande Miralles che ti prendeva in stage, ma ti pagava anche. Incredibile per un giovane architetto che era abituato ad essere sfruttato dagli studi milanesi o a volte dover pagare per lavorare in un’agenzia di una grande firma. Emiliano sta ancora a Barcellona, la situazione è cambiata, un po’ più difficile, oggi con la crisi, ma non ha la più vaga intenzione di tornare in Lombardia.
È lui però a dirmi che in realtà ha scoperto di essere italiano proprio a Barcellona. Perché, dice, gli italiani in Italia sono individualisti e non fanno quasi mai gioco di squadra, è solo all’estero che scoprono di avere qualcosa di particolare che li distingue dagli altri, un’italianità che gli “altri”, gli “stranieri” riconoscono subito e che è considerata una qualità e non solo un tic nervoso. E ribadisce che Barcellona per lui è una città italiana, nel senso che lui ci si muove pensando di restare italiano, di non perdere i contatti con l’Italia. Ma è da Barcellona che può agire con una libertà e una creatività che in patria sarebbe solo punita come impertinenza giovanile e incapacità di rispettare faccendieri, speculatori, malavitosi e politici ignoranti.

Michele Ferrà è un siciliano che si è trasferito a Berlino per impiantare una casa di produzione di video e film. Berlino gli dà la tranquillità, l’efficienza, la convenienza – qui la vita costa quattro volte meno che in Italia – e una rete mondiale di contatti. Michele rimane siculo e palermitano fino in fondo, ma non tornerebbe mai a Palermo, città a cui non perdona il carattere nero, spaventosamente squallido e corrotto, la voragine della connivenza mafiosa e l’incapacità di sperare e di fare. Eppure lui non diventerà berlinese, né americano – paese in cui va spesso – né thailandese, paese in cui gira i suoi film.
Matteo Pasquinelli è un ricercatore nel campo dei mass-media e dei cultural studies. Ha fondato Rekombinant, è una delle persone più informate e preparate sul mondo del web, della trasformazione post-globale, delle mutazioni del neo-capitalismo. Pensate che gli abbiano mai offerto nulla in Italia? Pensate che l’Università di Bologna gli abbia spalancato le porte dei laboratori? Ma nemmeno per sogno. Allora sono dieci anni che vive sostenuto da istituzioni britanniche, olandesi, tedesche e che continua a inventare analisi della situazione reale, a scrivere sulle riviste specializzate, ad aprire siti. Lui non diventerà olandese, né tedesco perché è indelebilmente uno spinozista romagnolo, epicureo riminese, nelle sue valigie stipa, a ogni ritorno, farina di castagne dell’Appennino e sangiovese.

Quando andiamo a spasso in una delle sue città europee alla ricerca di un ristorante che non ci faccia troppo sentire la nostalgia a me della caponata e a lui della piadina, ho l’impressione che qualcosa di differente sta accadendo a una parte d’Italia. Queste persone e molte, moltissime altre sono l’Europa, senza bisogno di troppi discorsi e teorie, e hanno capito qualcosa che i teorici dell’Europa non hanno mai capito: che l’euro e l’Europa sono la possibilità di restare italiani, greci, spagnoli, francesi senza essere umiliati dalle stupide politiche nazionali dei rispettivi paesi. Essere europei significa mantenere una propria identità senza doverla confondere con un’appartenenza a una classe dirigente che in patria blocca i processi d’apertura e trasformazione.
Ovviamente questo è il quadro positivo, profondamente innovatore di questa compagine di nuovi europei, sono quello che George Steiner chiama “luftmenschafte”, uomini dai piedi leggeri, una definizione sprezzante con cui i nazisti appellavano gli ebrei e tutti i cosmopoliti. La parte tragica sta nel fatto che questo è il risultato di un’espulsione: per l’Italia si tratta della liquidazione di una potenziale classe dirigente di professionisti, pensatori, ricercatori, imprenditori. E questa è davvero una tragedia: ognuno dei miei amici italiani in Europa condivide amari ricordi di strade bloccate, di rifiuti, di offerte di lavoro ricattatorie, di posti universitari in cambio di una beota fedeltà alla noia accademica.
Allora stare in Europa è diventata anzitutto una forma di cura, un dirsi: ma no, ma no, il mondo non può essere così meschino, c’è merito, speranza, possibilità di trovare persone con cui costruire assonanze e con cui inventare, sperimentare, creare senza il peso di coloro che hanno sempre fatto sì che il mondo dovesse sembrare solo un circolo chiuso e vizioso.

Finlandia, donne al potere: una 40enne sarà premier

I paesi dove le donne hanno potere, hanno una marcia in più.
Uomini italiani non abbiate paura delle donne che usano il cervello, temete di più quelle che apparentemente sembra che non lo usino!!! 🙂

FINLAND CENTER PARTY NEW CHAIRWOMAN

La Repubblica ha già una presidente e 11 ministre

Finlandia, donne al potere

Una quarantenne sarà premier

E Helsinki sta superando la crisi meglio degli altri Paesi

BRUXELLES – Per gli antichi finnici, quello di oggi era il solstizio d’estate consacrato a Ukko, il dio maschile del tuono e della paternità fecondatrice. Per i finlandesi del 2010, è invece il giorno in cui un’altra donna, e mamma, arriva ai vertici dello Stato: Mari Kiviniemi, del Partito di Centro, 41 anni e 2 bambini, figlia di contadini e laureata in scienze politiche, nonché pattinatrice provetta, è da oggi primo ministro; così come Tarja Kaarina Halonen, 67 anni, una figlia, è ormai da 10 anni presidente della repubblica. E così come sono donne 11 dei 20 ministri dell’attuale governo. In Finlandia si parla molto poco, anzi non si parla mai, delle cosiddette «quote rosa» che molto più a Sud riempiono i programmi e i discorsi di tanti politici. Ma la presenza femminile nella politica, come in tutte le professioni, ha radici antiche e solide. In questo Paese le donne poterono votare ed essere elette già dal 1906, quando ancora la Finlandia era un granducato sotto l’ala dello zar di Russia, e ben prima che ciò avvenisse in tanti altri angoli del mondo.

Nelle prime elezioni parlamentari finlandesi, concesse nel 1907, già 19 fra gli eletti dal popolo portavano la gonna: una percentuale incredibile per le tradizioni politiche del tempo. La prima donna entrò nel governo nel 1926, come ministro degli Affari sociali. E fra i 550 ministri succedutisi nei 70 governi da che il Paese è indipendente, le donne ci sono sempre state in buon numero e anche con portafogli «pesanti»: da Elisabeth Rehn, ministro della Difesa nel 1995, a Tarja Kaarina Halonen, ministro degli Esteri e speaker del Parlamento prima di salire alla presidenza della Repubblica; o ad Anneli Jäätteenmäki, altra donna premier, nel 2003, seppure solo per 69 giorni (la buttò giù uno scandalo). Da anni, nell’Eduskunta, il Parlamento nazionale, difficilmente la percentuale delle donne scende al di sotto del 38%. E però, quote rosa o no, la notizia di oggi resta davvero una prima assoluta: non era mai accaduto che due donne occupassero contemporaneamente i due posti più alti dello Stato. Notizia che si accompagna a un’altra, di cui pure i finlandesi non parlano molto, forse per scaramanzia: senza clamori, il loro Paese sembra pian piano superare la tempesta della crisi, assai meglio di altri.

Per esempio è piazzato assai bene nella classifica internazionale della libertà d’impresa che esamina i vincoli posti dalla burocrazia, o dalla corruzione, alla creatività imprenditoriale: la Finlandia è al diciassettesimo posto nel mondo, e all’ottavo fra i 43 Paesi della regione europea. Entro i suoi confini, ci vogliono circa 14 giorni per dare il via a un’impresa, contro una media mondiale di 35 giorni. L’Italia, tanto per fare un confronto, è al posto 74 della classifica mondiale, e al posto 35 di quella europea (ma «impone» solo 10 giorni di attesa per l’avvio di un’attività, sempre che non sia implicata la richiesta di una licenza). In questa cornice, Mari Kiviniemi si avvia a fare la sua prova da primo ministro. Che non sarà facile: se le banche austriache o tedesche sono esposte in Paesi come l’Ungheria, o la Lettonia, o la Romania, quelle finlandesi hanno nervi scoperti proprio sul Baltico, in quell’Estonia che per ragioni storiche e culturali resta una sorta di «sorella minore», e che sta per aderire all’euro. Chi conosce la signora Kiviniemi assicura comunque che ha nervi saldi, come le lame dei pattini sui cui trascorre molti pomeriggi domenicali. Qualche mese fa, nel mezzo di una tempestosa riunione del suo partito, cercando di restar seria propose una mozione per far riscaldare l’acqua troppo fredda nella piscina interna del Parlamento: e il litigio che già stava per scoppiare fra gli «altri», gli uomini, si sciolse in una risata

Dal Corriere della Sera.it

la ricerca universitaria (e altro) spiegata a fumetti (made in USA)

Consiglio di visionare questo sito:
Un ragazzo statunitense “spiega” argomenti complessi a suon di fumetti divertenti.
Parla di USA ma non solo.
Eccolo qua l’archivio storico: PiledHigherAndDeeperComics.com

Corea del Nord : un occhio dentro alla dittatura totale

20+ milioni di persone PRIGIONIERE del delirio di onnipotenza della famiglia Kim…averne sentito lontanamente parlare è veramente insufficiente per avere una idea di cosa è la Corea del Nord.
Ho trovato questo documentario. E’ assolutamente DA VEDERE. Prendetevi il tempo necessario.
Sapere per poter capire.
Buona visione:

http://en.wikipedia.org/wiki/North_Korea

http://en.wikipedia.org/wiki/Kim_Il-sung

FEWS: monitorizzazione della fame nel mondo

In quali regioni del pianeta si soffre maggiormente la fame ce lo dice FEWS (Famine Early Warning Systems Network).

FEWS

Nata negli USA nel 1985, questa agenzia è specializzata nel monitoraggio ed elaborazione dati su clima, cibo ed uomo…incrociando questi dati l’organizzazione lancia gli allarmi “crisi” con sufficiente anticipo da permettere un intervento (in teoria).

italia: dogane impenetrabili

Ho acquistato una batteria ad Hong Kong, trovata sul sito “ebay”
Il venditore mi ha spedito questa “email automatica”:


We have shipped the item by air mail from HK.
It will take about 8-14 business days to reach the US , UK, and AU.
It will take about 2-4 weeks to reach most European Countries , and CA.
Because the customs of Italy is one of the strictest in the world and it
often confiscates batteries, it may take 1-2 months to Italy!!
The shipping time is not absolute, sometimes it may be delayed in customs
due to customs inspection.
Please be patient.”

La cosa che mi lascia perplesso non è tanto la “tassa” di ingresso… sono i tempi che richiedono alla dogana per realizzare che il tuo pacco esiste, valutare eventuali problemi e calcolare la cifra necessaria allo sdoganamento.

alta velocità Italiana: 20 volte + cara e 10 volte + lenta della Cinese

Una azienda cinese sta realizzando 450 km di ferrovia alta velocità in Arabia Saudita.
L’appalto vale meno di 2 miliardi di dollari.
Sarà realizzato grazie al lavoro di circa 5’000 manovali cinesi.
La nuova linea ferroviaria ad alta velocità sarà lunga 450 km.
Il lavoro dovrebbe essere terminato in 3 anni.
(qui la fonte della notizia)

L’alta velocità Torino-Milano:
Più di 11 miliardi di dollari.
Non ho idea di quanta gente sia servita.
Lunga circa 150 km.
Son quasi 20 anni che ci lavorano e ancora non è finita.
(qui la fonte di questi dati)

…a conti fatti i cinesi (in trasferta) realizzano in un sedicesimo del tempo e con un ottavo del tempo!
…chissà come fanno?!?…
🙂
saranno i cinesi a essere particolarmente “bravi”
o sono gli italiani a essere particolarmente “scarsi”
o altro?!?…

cartelli stradali velocità consigliata in curva (New Zealand)

In Nuova Zelanda, lungo le strade carreggiabili, sotto al cartello “curva pericolosa” ne mettono un altro che indica la “velocità massima sicura”.
Ho guidato per più di 7’000 km in lungo e in largo in tutte e due le isole maggiori e…assicuro che sono COMODISSIMI: avvicinandosi alla curva sconosciuta (quinidi potenzialmente pericolosa), si rallenta alla velocità segnalata e…pluf!…PERFETTA!!!
…ebbravi i kiwi!!!…
…da COPIARE TUTTI!!!…

foto di esempio cartello velocità consigliata in curva

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