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Life in the Undergrowth – Documentari BBC stupendi

IMDb mi ha “consigliato” questa serie di 5 documentari di 50 minuti l’uno della BBC.
Sono ASSOLUTAMENTE PAZZESCHI e STUPENDI e INCREDIBILI e MAGNIFICI e IMPERDIBILI
…se vi piacciono/interessano gli insetti…si intende 😉
…super consigliato!

…e qui tutta una serie di spezzoni per farvi venire voglia di guardarvi i documentari integralmente…

I tuoi SCHIAVI

WHAT? SLAVES WORK FOR ME?

Sappiamo che esistono ancora condizioni di lavoro discutibili. Aziende che sfruttano manodopera, eccetera. Ma comprare, vendere e trafficare esseri umani? Se questo accade, dev’essere solo in culture selvagge e diverse dalla mia, ben lontano dalla mia possibilità di azione.

Si?

Inserisci il luogo dove vivi e scopri quanti schiavi hai.

…questa la mappa che mostra la distribuzione del lavoro minorile.

Zygmunt Bauman sulla società globale

Copio-incollo questa interessantissima intervista a Zygmunt Bauman. Risale al 20 giugno 2002 ma a mio parere è ancora attualissima…anzi, forse addirittura ancora in anticipo sui tempi. Leggetela!

Il 6 giugno 2002 Zygmunt Bauman è stato insignito della laurea Honoris Causa presso l’università St. Kliment di Sofia, Bulgaria. Bauman è uno dei sociologi più rinomati sul piano internazionale. Per spiegare i fenomeni legati alla globalizzazione, ha diviso il mondo in due: i nuovi nomadi globali ed i localizzati, che non hanno la possibilità di muoversi liberamente. Paradossalmente, lui che rientrerebbe nella prima categoria, è stato bloccato 10 ore presso l’aeroporto di Milano a causa di un ritardo del suo aereo. Zygmunt Bauman ha vissuto una vita molto intensa. Nato in Polonia nel 1925, a 18 anni ha abbandonato il suo Paese rifugiandosi in Unione Sovietica per evitare le persecuzioni razziali. Dopo la seconda guerra mondiale è rientrato a Varsavia ed ha intrapreso la carriera militare per poi abbandonarla iniziando quella universitaria e insegnando sociologia. Nel ’68, durante una campagna anti-sionista del regime polacco, ha abbandonato per una seconda volta la Polonia e si è trasferito prima in Israele e poi in Gran Bretagna, dove ha cominciato ad insegnare presso l’Università di Leeds.
E’ stato intervistato dalla corrispondente dalla Bulgaria dell’Osservatorio sui Balcani, Tanya Mangalakova, sopratutto tenendo conto del suo libro più famoso “Dentro la globalizzazione: le conseguenze sulle persone”.

Prof. Bauman, nel suo libro “Globalizzazione: le conseguenze umane”, lei afferma che le multinazionali dipendono dall’esistenza nel mondo di forti divisioni e che sono interessate all’esistenza di stati deboli. Questi stati, sotto controllo poliziesco, rischiano di divenire meri esecutori di politiche stabilite altrove. Noi cittadini della ex-Jugoslavia abbiamo assistito alla creazione di stati piccoli e deboli che rischiano di finire in queste dinamiche. Cosa ha portato alla fine delle Jugoslavia e ritiene questa tendenza alla disgregazione non sia ancora finita?

Non sono un profeta e non ho modo di predire il futuro. Posso solo vedere cosa sta accadendo ora, posso provare ad individuare tendenze. Tra queste vi è senza dubbio quella alla frammentazione delle istituzioni politiche. Non si è più in grado di garantire l’esistenza degli elementi costitutivi di uno Stato Nazione: un sistema economico omogeneo, un controllo del territorio, una cultura nazionale che unifichi il paese. Vi è inoltre una manifesta incapacità di difendersi da possibili attacchi dall’esterno, quali essi siano, e di garantire l’ordine interno (…) il capitale fugge all’estero, dove vi sono condizioni di maggiore redditività. Lo spazio di manovra degli Stati Nazione è quindi molto limitato (…) E sono deboli le forze che si oppongono a questa tendenza. Non si può confondere politica internazionale con politica globale. La prima dipende totalmente dai singoli Stati che si ritrovano, discutono su di un determinato argomento ma poi spetta a loro sottoscrivere o meno un eventuale accordo (…) la politica globale è qualcosa di diverso e a tutt’oggi inesistente. Non esiste alcuna rappresentanza democratica globale. Sino a quando non si riuscirà ad averla non ci si muoverà dai binari sui quali già scorriamo.

Lei sta parlando di istituzioni globali. C’è forse qualcuno che si oppone a queste ultime perchè si avvantaggia del “disordine globale”?

Qui si tratta di individuare dove sia il vero potere, quello che decide sulle vite dei cittadini del mondo. Il potere è oramai extra-territoriale mentre l’azione politica è rimasta locale. Nessuno Stato è in grado di definire regole che superino i propri confini (…), siamo al paradosso di dover rispondere con soluzioni locali a problemi globali e non penso questo sia possibile (…), e quando parlo di istituzioni globali non mi riferisco a quelle oramai superate della democrazia rappresentativa, nata e sviluppatasi negli Stati Nazione. Occorre inventare qualcosa di diverso.

Queste istituzioni di cui parla, sono in qualche modo simili alla NATO o all’Unione Europea?

Non so. Non abbiamo ancora sviluppato il concetto giusto. I parlamenti si sono ad esempio sviluppati con estrema fatica e lentamente. Lo Stato Nazione è emerso come un efficace strumento operativo in grado di bilanciare i conflitti di interessi tra diverse classi sociali, in grado di distribuire la ricchezza nazionale. Si è dimostrato capace di ben veicolare l’azione collettiva (…), ma ancora non abbiamo nulla che sia idoneo a combattere la sempre più netta divisione mondiale tra ricchi e poveri, tra Paesi forti e Paesi deboli (…) siamo in una situazione certamente difficile ma ritengo che si riuscirà a trovare una soluzione.

Secondo alcuni filosofi, oramai non si combatte più per il territorio. Ma nei Balcani siamo stati testimoni di numerosi conflitti per il territorio, per lo spazio. Ritiene che il nazionalismo sia definitivamente tramontato nei Balcani?

(…) paradossalmente se da una parte lo spazio sta perdendo importanza dall’altra acquisisce nuovi significati. Quindi meno importante ma più significante. La gente sta cercando di trovare sicurezza, minata dallo sviluppo globale, ed allora ci si arrocca in un determinato spazio geografico. La guerra in Jugoslavia è stata a mio avviso dovuta in gran parte dalla volontà di cercare la sicurezza in se stessi. Se si è tutti croati, serbi o albanesi, in qualche modo ci si illude di essere più sicuri … in Kosovo i serbi combattono gli albanesi e gli albanesi i serbi, e non ci si rende conto che in questo modo non si fa altro che approfondire le cause della propria insicurezza. In questo modo si pavimenta la strada alle forze globali, che sono il motivo principe di questa insicurezza. Nell’epoca attuale possiamo individuare due tipi di guerra: il primo è quello ben rappresentato dalle modalità d’azione della NATO in Bosnia, Kossovo, ma emerso ancor più chiaramente nella Guerra del Golfo o in Afghanistan. E’ una guerra globale, dove il territorio non ha importanza ed anzi si ha paura di rimanerci legati, paura di impelagarsi nell’onere di una gestione amministrativa del territorio. Il Pentagono non ha iniziato le attività militari in Afghanistan prima di aver chiaro un “exit scenario”, una via d’uscita, la garanzia di non dover rimanere in un luogo inospitale, essere responsabili per l’ordine pubblico, e liberi paradossalmente dal rischio di vittime da fuoco amico. Queste potrebbero essere definite le guerre “mordi e fuggi”. C’è invece un secondo tipo di guerra, fortemente legata al territorio, anche se quasi più importante del territorio è l’identità che esso porta con sè. E questo viene ad esempio raggiunto con la pulizia etnica. E non è solo una tendenza limitata alla Bosnia, Croazia, Serbia. In tutta Europa si possono individuare partiti che promettono di chiudere le porte, di cacciare gli immigrati, ecc. Naturalmente niente cambierebbe anche nel caso gli immigrati venissero cacciati, perchè sono le forze globali a causare questo disagio. Ma perlomeno si ha la sensazione di aver fatto qualcosa, di non essere stati seduti ad aspettare.

Alcuni autori tendono ad interpretare la globalizzazione con l’imporsi di una lobby ebraica. In Bulgaria questa “teoria di cospirazione” è particolarmente popolare. Cosa ne pensa?

La sicurezza è l’argomento più popolare. Una delle condizioni per percepirsi sicuri è avere chiare e semplici spiegazioni riguardo ai fenomeni che ci coinvolgono.
Quando non riusciamo a capire cosa stia succedendo, quando la situazione è complessa e richiede uno sforzo teorico non indifferente, ci si sente a disagio, insicuri. Vivere in un mondo che non si comprende è difficile. I bambini hanno un’istintiva paura del buio perché nel buio non si sa cosa potrebbe accadere. Ci sentiamo leggermente meno a disagio quando abbiamo chiare e semplici spiegazioni per tutto. E la “cospirazione ebraica” è un chiaro esempio di questo (…) a volte presa di mira è la comunità ebraica, altre le comunità di immigrati. Con alcuni paradossi: 20-30 anni fa, portoghesi e spagnoli che immigravano in Germania erano considerati una minaccia da molti tedeschi, “pericolosi” Gastarbeiter. Ora, in Portogallo ed in Spagna, si ripete la storia e molti urlano “stop agli immigrati”, dimenticando che loro stessi sono emigrati in passato per il pane.

ECOriflessioni

a cura di Roberta Marzola
Manifesto del doposviluppo
di Serge Latouche

La corrente di pensiero che si riferisce alla decrescita ha conservato fino a oggi un carattere quasi confidenziale. Nel corso di una storia già lunga ha prodotto, ciò nonostante, una letteratura non disprezzabile che si trova rappresentata in numerosi campi di ricerca e d’azione nel mondo (1).
Nata negli anni sessanta, il decennio dello sviluppo, da una riflessione critica sui presupposti dell’economia e sul fallimento delle politiche di sviluppo, questa corrente riunisce ricercatori, attori sociali del Nord come del Sud portatori di analisi e di esperienze innovatrici sul piano economico, sociale e culturale. Nel corso degli anni si sono intrecciati dei legami spesso informali tra le sue diverse componenti e le esperienze e le riflessioni si sono mutuamente alimentate. Il movimento per la decrescita s’inscrive dunque nel più amppio movimento dell’International Network for Cultural Alternatives to Development (INCAD) e si riconosce pienamente nella dichiarazione del 4 maggio 1992. Intende proseguire e ampliare il lavoro così cominciato.
Il movimento mette al centro della sua analisi la critica radicale della nozione di sviluppo che, nonostante le evoluzioni formali conosciute, resta il punto di rottura decisivo in seno al movimento di critica al capitalismo e della globalizzazione. Ci sono da un lato quelli che, come noi, vogliono uscire dallo sviluppo e dall’economicismo e, dall’altro, quelli che militano per un problematico “altro” sviluppo (o una non meno problematica “altra” globalizzazione). A partire da questa critica, la corrente procede a una vera e propria “decostruzione” del pensiero economico. Sono pertanto rimesse in discussione le nozioni di crescita, povertà, bisogno, aiuto ecc.Le associazioni e i membri della presente rete si riconoscono in tale impresa. Dopo il fallimento del socialismo reale e il vergognoso scivolamento della socialdemocrazia verso il social-liberalismo, noi pensiamo che solo queste analisi possano contribuire a un rinnovamento del pensiero e alla costruzione di una società veramente alternativa alla società di mercato. Rimettere radicalmente in questione il concetto di sviluppo è fare della sovversione cognitiva, e questa è la condizione preliminare del sovvertimento politico, sociale e culturale.
Il momento ci sembra favorevole per uscire dalla semiclandestinità dove siamo stati relegati finora e il grande successo del colloquio di La ligne d’horizon (2), “Défaire le développement, refaire le monde”, che si è tenuto presso l’UNESCO dal 28 febbraio al 3 marzo 2002, rafforza le nostre convinzioni e le nostre speranze.

Rompere l’immaginario dello sviluppo e decolonizzare le menti:
Di fronte alla globalizzazione, che non è altro che il trionfo planetario del mercato, bisogna concepire e volere una società nella quale i valori economici non siano più centrali (o unici). L’economia dev’essere rimessa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo. Bisogna rinunciare a questa folle corsa verso un consumo sempre maggiore. Ciò non è solo necessario per evitare la distruzione definitiva delle condizioni di vita sulla Terra ma anche e soprattutto per fare uscire l’umanità dalla miseria psichica e morale. Si tratta di una vera decolonizzazione del nostro immaginario e di una diseconomicizzazione delle menti indispensabili per cambiare davvero il mondo prima che il cambiamento del mondo ce lo imponga nel dolore. Bisogna cominciare con il vedere le cose in altro modo perché possano diventare altre, perché sia possibile concepire soluzioni veramente originali e innovatrici. Si tratta di mettere al centro della vita umana altri significati e altre ragioni d’essere che l’espansione della produzione e del consumo.La parola d’ordine della rete è dunque “resistenza e dissidenza”. Resistenza e dissidenza con la testa ma anche con i piedi. Resistenza e dissidenza come atteggiamento mentale di rifiuto, come igiene di vita. Resistenza e dissidenza come atteggiamento concreto mediante tutte le forme di autorganizzazione alternativa. Ciò significa anche il rifiuto della complicità e della collaborazione con quella impresa dissennata e distruttiva che costituisce l’ideologia dello sviluppo.

Illusioni e rovine dello sviluppo:
La attuale globalizzazione ci mostra quel che lo sviluppo è stato e che non abbiamo mai voluto vedere. Essa è lo stadio supremo dello sviluppo realmente esistente e nello stesso tempo la negazione della sua concezione mitica. Se lo sviluppo, effettivamente, non è stato altro che il seguito della colonizzazione con altri mezzi, la nuova mondializzazione, a sua volta, non è altro che il seguito dello sviluppo con altri mezzi. Conviene dunque distinguere lo sviluppo come mito dallo sviluppo come realtà storica.
Si può definire lo sviluppo realmente esistente come una impresa che mira a trasformare in merci le relazioni degli uomini tra loro e con la natura. Si tratta di sfruttare, di valorizzare, di trarre profitto dalle risorse naturali e umane. Progetto aggressivo verso la natura e verso i popoli, è -come la colonizzazione che la precede e la mondializzazione che la segue- un’opera al tempo stesso economica e militare di dominazione e di conquista. È lo sviluppo realmente esistente, quello che domina il pianeta da tre secoli, che causa i problemi sociali e ambientali attuali: esclusione, sovrappopolazione, povertà, inquinamenti diversi ecc.
Quanto al concetto mitico di sviluppo, è nascosto in un dilemma: da una parte, esso designa tutto e il suo contrario, in particolare l’insieme delle esperienze storiche e culturali dell’umanità, dalla Cina degli Han all’impero degli Inca. In questo caso non designa nulla in particolare, non ha alcun significato utile per promuovere una politica, ed è meglio sbarazzarsene. Dall’altra parte, esso ha un contenuto proprio, il quale designa allora necessariamente ciò che possiede in comune con l’avventura occidentale del decollo dell’economia così come si è organizzata dalla rivoluzione industriale in Inghilterra negli anni 1750-1800. In questo caso, quale che sia l’aggettivo che gli si affianca, il contenuto implicito o esplicito dello sviluppo è la crescita economica, l’accumulazione del capitale con tutti gli effetti positivi e negativi che si conoscono. Ora, questo nucleo centrale che tutti gli sviluppi hanno in comune con tale esperienza, è legato a rapporti sociali ben particolari che sono quelli del modo di produzione capitalistico. Gli antagonisti di “classe” sono ampiamente occultati dalla pregnanza di “valori” comuni ampiamente condivisi: il progresso, l’universalismo, il dominio della natura, la razionalità quantificante. Questi valori sui quali si basa lo sviluppo, e in particolare il progresso, non corrispondono affatto ad aspirazioni universali profonde. Sono legati alla storia dell’Occidente e trovano scarsa eco nelle altre società. Al di fuori dei miti che la fondano, l’idea di sviluppo è totalmente sprovvista di senso e le pratiche che le sono legate sono rigorosamente impossibili perché impensabili e proibite. Oggi questi valori occidentali sono precisamente quelli che bisogna rimettere in discussione per trovare una soluzione ai problemi del mondo contemporaneo ed evitare le catastrofi verso le quali l’economia mondiale ci trascina. Il doposviluppo è al contempo postcapitalismo e postmodernità.

I nuovi aspetti dello sviluppo:
Per tentare di scongiurare magicamente gli effetti negativi dello sviluppo, siamo entrati nell’era dello sviluppo aggettivato. Si è assistito alla nascita di nuovi sviluppi autocentranti, endogeni, partecipativi, comunitari, integrati, autentici, autonomi e popolari, equi… senza parlare dello sviluppo locale, del microsviluppo, dell’endosviluppo, dell’etnosviluppo! Affiancando un aggettivo al concetto di sviluppo, non si tratta veramente di rimettere in discussione l’accumulazione capitalistica; tutt’al più si pensa di aggiungere un risvolto sociale o una componente ecologica alla crescita economica come un tempo si è potuto aggiungerle una dimensione culturale. Questo lavoro di ridefinizione dello sviluppo riguarda, in effetti, sempre più o meno la cultura, la natura e la giustizia sociale. In tutto ciò si tratta di guarire un male che colpirebbe lo sviluppo in modo accidentale e non congenito. Per l’occasione è stato addirittura creato uno spauracchio, il malsviluppo. Questo mostro è solo una chimera, poiché il male non può colpire lo sviluppo per la buona ragione che lo sviluppo immaginario è per definizione l’incarnazione stessa del bene. Il buon sviluppo è un pleonasmo perché lo sviluppo significa buona crescita, perché anche la crescita è un bene contro il quale nessuna forza del male può prevalere.
È l’eccesso stesso delle prove del suo carattere benefico che meglio rivela la frode dello sviluppo.
Lo sviluppo sociale, lo sviluppo umano, lo sviluppo locale e lo sviluppo durevole non sono altro che gli ultimi nati di una lunga serie di innovazioni concettuali tendenti a far entrare una parte di sogno nella dura realtà della crescita economica. Se lo sviluppo sopravvive ancora lo deve soprattutto ai suoi critici! Inaugurando l’era dello sviluppo aggettivato (umano, sociale ecc.), gli umanisti canalizzano le aspirazioni delle vittime dello sviluppo del Nord e del Sud strumentalizzandoli. Lo sviluppo durevole è il più bel successo di quest’arte di ringiovanimento di vecchie cose. Esso illustra perfettamente il procedimento di eufemizzazione mediante aggettivo. Lo sviluppo durevole, sostenibile o sopportabile (sustainable), portato alla ribalta alla Conferenza di Rio del giugno 1992, è un tale “fai da te” concettuale, che cambia le parole invece di cambiare le cose, una mostruosità verbale con la sua antinomia mistificatrice. Ma nello stesso tempo, con il suo successo universale, attesta la dominazione della ideologia dello sviluppo. Ormai la questione dello sviluppo non riguarda soltanto i paesi del Sud, ma anche quelli del Nord.
Se la retorica pura dello sviluppo con la pratica legata dell’espertocrazia volontarista non ha più successo, il complesso delle credenze escatologiche in una prosperità materiale possibile per tutti e rispettosa dell’ambiente resta intatto. L’ideologia dello sviluppo manifesta la logica economica in tutto il suo rigore. Non c’è posto in questo paradigma per il rispetto della natura reclamato dagli ecologisti né per il rispetto dell’uomo reclamato dagli umanisti. Lo sviluppo realmente esistente appare allora nella sua verità. E lo sviluppo alternativo come un miraggio.

Oltre lo sviluppo:
Parlare di doposviluppo non è soltanto lasciar correre l’immaginazione su ciò che potrebbe accadere in caso di implosione del sistema, fare della fantapolitica o esaminare un problema accademico. È parlare della situazione di coloro che attualmente al Nord come al Sud sono esclusi o sono in procinto di diventarlo, di tutti coloro, dunque, per i quali il progresso è un’ingiuria e una ingiustizia, e che sono indubbiamente i più numerosi sulla faccia della Terra. Il doposviluppo si delinea già tra noi e si annuncia nella diversità.
Il doposviluppo, in effetti, è necessariamente plurale. Si tratta della ricerca di modalità di espansione collettiva nelle quali non sarebbe privilegiato un benessere materiale distruttore dell’ambiente e del legame sociale. L’obiettivo della buona vita si declina in molti modi a seconda dei contesti. In altre parole, si tratta di ricostruire nuove culture. Questo obiettivo può essere chiamato l’humran (crescita/rigoglio) come in Ibn Khaldun, swadeshi-sarvodaya (miglioramento delle condizioni sociali di tutti) come in Gandhi, o bamtaare (stare bene assieme) come dicono i toucouleurs, o in altro modo. L’importante è esprimere la rottura con l’impresa di distruzione che si perpetua sotto il nome di sviluppo oppure, oggi, di mondializzazione. Per gli esclusi, per i naufraghi dello sviluppo, può trattarsi soltanto di una sorta di sintesi tra la tradizione perduta e la modernità inaccessibile. Queste creazioni originali di cui si possono trovare qua e là degli inizi di realizzazione aprono la speranza di un doposviluppo. Bisogna al tempo stesso pensare e agire globalmente e localmente. È solo nella mutua fecondazione dei due approcci che si può tentare di sormontare l’ostacolo della mancanza di prospettive immediate. Il doposviluppo e la costruzione di una società alternativa non si declinano necessariamente nello stesso modo al Nord e al Sud. Proporre la decrescita conviviale come uno degli obiettivi globali urgenti e identificabili attualmente e mettere in opera alternative concrete localmente sono prospettive complementari.

Decrescere e abbellire:
La decrescita dovrebbe essere organizzata non soltanto per preservare l’ambiente ma anche per ripristinare il minimo di giustizia sociale senza la quale il pianeta è condannato all’esplosione. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica sembrano dunque strettamente legate. I limiti del patrimonio naturale non pongono soltanto un problema di equità intergenerazionale nel condividere le disponibilità, ma anche un problema di giusta ripartizione tra gli esseri attualmente viventi dell’umanità.
La decrescita non significa un immobilismo conservatore. La saggezza tradizionale considerava che la felicità si realizzasse nel soddisfare un numero ragionevolmente limitato di bisogni. L’evoluzione e la crescita lenta delle società antiche si integravano in una riproduzione allargata ben temperata, sempre adattata ai vincoli naturali.Organizzare la decrescita significa, in altre parole, rinunciare all’immaginario economico, vale a dire alla credenza che di più è uguale a meglio. Il bene e la felicità possono realizzarsi con costi minori. Riscoprire la vera ricchezza nel fiorire di rapporti sociali conviviali in un mondo sano può ottenersi con serenità nella frugalità, nella sobrietà e addirittura con una certa austerità nel consumo materiale.
La parola d’ordine della decrescita ha soprattutto come fine il segnare con fermezza l’abbandono dell’obiettivo insensato della crescita per la crescita, obiettivo il cui movente non è altro che la ricerca sfrenata del profitto per i detentori del capitale. Evidentemente, non si prefigge un rovesciamento caricaturale che consisterebbe nel raccomandare la decrescita per la decrescita.In particolare, la decrescita non è la crescita negativa. Si sa che il semplice rallentamento della crescita sprofonda le nostre società nel disordine con riferimento alla disoccupazione e all’abbandono dei programmi sociali, culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità della vita. Si può immaginare quale catastrofe sarebbe un tasso di crescita negativa!
Allo stesso modo non c’è cosa peggiore di una società lavoristica senza lavoro e, peggio ancora, di una società della crescita senza crescita. La decrescita è dunque auspicabile soltanto in una “società di decrescita”. Ciò presuppone tutt’altra organizzazione in cui il tempo libero è valorizzato al posto del lavoro, dove le relazioni sociali prevalgono sulla produzione e sul consumo dei prodotti inutili o nocivi. La riduzione drastica del tempo dedicato al lavoro, imposta per assicurare a tutti un impiego soddisfacente, è una condizione preliminare. Ispirandosi alla carta su “consumi e stili di vita” proposta al Forum delle ONG di Rio, è possibile sintetizzare il tutto in un programma di sei “R”: rivalutare, ristrutturare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare.
Questi sono i sei obiettivi interdipendenti un circolo virtuoso di decrescita conviviale e sostenibile.
Rivalutare significa rivedere i valori in cui crediamo e in base ai quali organizziamo la nostra vita, nonché cambiare i valori che devono essere cambiati.
Ristrutturare significa adattare la produzione e i rapporti sociali in funzione del cambiamento dei valori.
Per ridistribuire s’intende la ridistribuzione delle ricchezze e dell’accesso al patrimonio naturale.
Ridurre vuol dire diminuire l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e di consumare.
Per fare ciò bisogna riutilizzare gli oggetti e i beni d’uso invece di gettarli e sicuramente riciclare i rifiuti non compressibili che produciamo.
Tutto ciò non è necessariamente antiprogressista e antiscientifico. Si potrebbe, nello stesso tempo, parlare di un’altra crescita in vista del bene comune, se il termine non fosse troppo alternativo.
Noi non rinneghiamo la nostra appartenenza all’Occidente, di cui condividiamo il sogno progressista, sogno che ci ossessiona. Tuttavia, aspiriamo a un miglioramento della qualità della vita e non a una crescita illimitata del PIL. Reclamiamo la bellezza delle città e dei paesaggi, la purezza delle falde freatiche e l’accesso all’acqua potabile, la trasparenza dei fiumi e la salute degli oceani. Esigiamo un miglioramento dell’aria che respiriamo, del sapore degli alimenti che mangiamo. C’è ancora molta strada da fare per lottare contro l’invasione del rumore, per ampliare gli spazi verdi, per preservare la fauna e la flora selvatiche, per salvare il patrimonio naturale e culturale dell’umanità, senza parlare dei progressi da fare nella democrazia. La realizzazione di questo programma è parte integrante dell’ideologia del progresso e presuppone il ricorso a tecniche sofisticate alcune delle quali sono ancora da inventare. Sarebbe ingiusto tacciarci come tecnofobi e antiprogressisti con il solo pretesto che reclamiamo un “diritto di inventario” sul progresso e sulla tecnica. Questa rivendicazione è un minimo per l’esercizio della cittadinanza.
Semplicemente, per i paesi del Sud, colpiti in pieno dalle conseguenze negative della crescita del Nord, non si tratta tanto di decrescere (o di crescere, d’altra parte), quanto di riannodare il filo della loro storia rotto dalla colonizzazione, dall’imperialismo e dal neoimperialismo militare, politico, economico e culturale. La riappropriazione delle loro identità è preliminare per dare ai loro problemi le soluzioni appropriate. Può essere sensato ridurre la produzione di certe colture destinate all’esportazione (caffè, cacao, arachidi, cotone ecc., ma anche fiori recisi, gamberi di allevamento, frutta e verdure come primizie ecc.), come può risultare necessario aumentare la produzione delle colture per uso alimentare. Si può pensare inoltre a rinunciare all’agricoltura produttivista come al Nord per ricostituire i suoli e le qualità nutrizionali, ma anche, senza dubbio, fare delle riforme agrarie, riabilitare l’artigianato che si è rifugiato nell’informale ecc. Spetta ai nostri amici del Sud precisare quale senso può assumere per loro la costruzione del doposviluppo.
In nessun caso, la rimessa in discussione dello sviluppo può ne deve apparire come una impresa paternalista e universalista che la assimilerebbe a una nuova forma di colonizzazione (ecologista, umanitaria…) Il rischio è tanto più forte in quanto gli ex colonizzati hanno interiorizzato i valori del colonizzatore. L’immaginario economico, e in particolare l’immaginario dello sviluppo, è senza dubbio ancora più pregnante al Sud che al Nord. Le vittime dello sviluppo hanno la tendenza a non vedere altro rimedio alle loro disgrazie che un aggravarsi del male. Penano che l’economia sia il solo mezzo per risolvere la povertà quando è proprio lei che la genera. Lo sviluppo e l’economia sono il problema e non la soluzione; continuare a pretendere e volere il contrario fa parte del problema.
Una decrescita accettata e ben meditata non impone alcuna limitazione nel dispendio di sentimenti e nella produzione di una vita festosa o addirittura dionisiaca.

Sopravvivere localmente:
Si tratta di essere attenti al reperimento delle innovazioni alternative: imprese cooperative in autogestione, comunità neorurali, LETS e SEL (3), autorganizzazione degli esclusi del Sud. Queste esperienze che noi intendiamo sostenere o promuovere ci interessano non tanto per se stesse, quanto come forme di resistenza e di dissidenza al processo di aumento della mercificazione totale del mondo. Senza cercare di proporre un modello unico, noi ci sforziamo di realizzare in teoria e in pratica una coerenza globale dell’insieme di queste iniziative.Il pericolo della maggior parte delle iniziative alternative è, in effetti, di chiudersi nella nicchia che hanno trovato all’inizio invece di lavorare alla costruzione e al rafforzamento di un insieme più vasto. L’impresa alternativa vive o sopravvive in un ambiente che è e dev’essere diverso dal mercato mondializzato. È questo ambiente dissidente che bisogna definire, proteggere, conservare, rinforzare sviluppare attraverso la resistenza. Piuttosto che battersi disperatamente per conservare la propria nicchia nell’ambito del mercato mondiale, bisogna militare per allargare e approfondire una vera società autonoma ai margini dell’economia dominante.
Il mercato mondializzato con la sua concorrenza accanita e spesso sleale non è l’universo dove di muove e deve muoversi l’organizzazione alternativa. Essa deve cercare una vera democrazia associativa per sfociare in una società autonoma. Una catena di complicità deve legare tutte le parti. Come nell’informale africano, nutrire la rete dei “collegati” è la base del successo. L’allargamento e l’approfondimento del tessuto di base è il segreto del successo e deve essere il primo pensiero delle sue iniziative. È questa coerenza che rappresenta una vera alternativa al sistema.
Al Nord, si pensa prima ai progetti volontari e volontaristici di costruzione di mondi differenti. Alcuni individui, rifiutando in tutto o in parte il mondo in cui vivono, tentano di mettere in atto qualcos’altro, di vivere altrimenti: di lavorare o di produrre altrimenti in seno a imprese diverse, di riappropriarsi della moneta anche per servirsene per un uso diverso, secondo una logica altra rispetto a quella dell’accumulazione illimitata e dell’esclusione massiccia dei perdenti.
Al Sud, dove l’economia mondiale, con l’aiuto delle istituzioni di Bretton Woods, ha cacciato dalle campagne milioni e milioni di persone, ha distrutto il loro modo di vita ancestrale, soppresso i loro mezzi di sussistenza, per gettarli e stiparli nelle bidonvilles e nelle periferie Terzo mondo, l’alternativa è spesso una condizione di sopravvivenza. I “naufraghi dello sviluppo”, abbandonati a loro stessi, condannati nella logica dominante a scomparire, non hanno scelta per restare a galla che organizzarsi secondo un’altra logica. Devono inventare, e almeno alcuni inventano effettivamente, un altro sistema, un’altra vita.
Questa seconda forma dell’altra società non è totalmente separata dalla prima, e ciò per due ragioni. Innanzitutto, perché l’autorganizzazione spontanea degli esclusi del Sud non è mai totalmente spontanea. Ci sono aspirazioni, progetti, modelli, o anche utopie che informano più o meno questi “fai da te” della sopravvivenza informale. Poi, perché, simmetricamente, gli “alternativi” del Nord non sempre hanno possibilità di scegliere. Anch’essi sono spesso degli esclusi, degli abbandonati, dei disoccupati o candidati potenziali alla disoccupazione, o semplicemente degli esclusi per disgusto… Ci sono dunque possibilità di contatto tra le due forme che possono e devono fecondarsi reciprocamente. Questa coerenza d’insieme realizza un certo modo, certi aspetti che François Partant attribuiva alla sua proposta centrale:dare a dei disoccupati, a dei contadini rovinati e a tutti coloro che lo desiderano la possibilità di vivere del loro lavoro, producendo, al di fuori dell’economia di mercato e nelle condizioni da loro stessi determinate, ciò di cui ritengono di aver bisogno (4).
Rafforzare la costruzione di tali altri mondi possibili passa per la presa di coscienza del significato storico di queste iniziative. Numerose sono già state le riconquiste da parte delle forze dello sviluppo delle imprese alternative isolate, e sarebbe pericoloso sottovalutare le capacità di recupero del sistema. Per contrastare la manipolazione e il lavaggio del cervello permanente a cui siamo sottoposti, la costruzione di una vasta rete sembra essenziale per condurre la battaglia del buon senso.

Note

  1. Il numero speciale della rivista «L’Écologiste», Défaire le développement, refaire le monde (II, n.4, inverno 2001-2, fa il punto sulla questione.
  2. La ligne d’horizon. Les amis de François Partant, 7 villa Bourgeois, 92240 Malakoff.
  3. Rispettivamente Local Exchange Trading System (Gran Bretagna) e Systèmes d’échanges locaux (Francia): sistemi di scambi locali di beni e servizi che non ricorrono al denaro, come le banche del tempo.
  4. F. Partant, La ligne d’horizon, La Découverte, Paris 1988, p. 206

 

(tratto da www.decrescita.it)

il magico parco di Bomarzo

Vicino a Viterbo, tra Firenze e Roma (qui la mappa), profondamente nascoste nel verde del bosco, si nascondono da circa cinque secoli, creature straordinarie e mostri colossali.
Giuro!!!
…dovete andarci!
E’ un posto assolutamente magico!
E sarebbe ancor più magnifico e straordinario andarci senza sapere cosa ci si troverà davanti agli occhi. Quindi consiglio fortissimamente agli “organizzatori” della gita di non spiegare nulla ai figli/compagni/amici etc…

qui il sito ufficiale del parco dei mostri
qui la scheda wiki con alcune info
qui un pò di foto dei “mostri”

CIGNI SELVATICI Tre figlie della Cina

Jung Chang, Cigni selvatici, ed. TEADUE, Milano, 1998

Chang ci racconta la storia della Cina dell’ultimo secolo attraverso le travagliate vicende esistenziali delle donne della sua famiglia, la nonna, la madre e se stessa.  Dal tempo dei Signori della Guerra, dei “gigli dorati di otto centimetri“, l’orribile pratica della fasciatura dei piedi, fino alla dittatura maoista con le conseguenze spietate e devastanti della Rivoluzione Culturale. Storie di donne, di rivoluzione, di violenze inaudite e gratuite, di speranze, di fiducia e straordinaria forza.
Un saggio storico ma anche un romanzo avvincente!

Ken Saro-Wiwa

Ken Saro-Wiwa

Ken Saro-Wiwa

Ken Saro-Wiwa (1941 – 1995) è stato uno scrittore e attivista nigeriano.
Uno degli intellettuali più significativi dell’Africa postcoloniale.

Scrittore eclettico, esordisce come drammaturgo negli anni universitari per dedicarsi poi alla narrativa (Sozaboy, 1985) ed alla televisione; il segno di questa produzione letteraria e televisiva può essere trovato nel felice equilibrio tra il tentativo di dare una forma “accademica” a un inglese raramente considerato degno di indagine (il cosiddetto Pidgin) e l’intrattenimento popolare.

Al lavoro artistico Saro-Wiwa affianca subito un impegno nella vita pubblica che lo vede ricoprire dapprima ruoli istituzionali negli anni settanta (nell’autorità portuale e nella pubblica istruzione del Rivers State) per poi porsi in aperto contrasto con le stesse autorità statali e con il governo federale della Nigeria.

Fin dagli anni ottanta infatti Saro-Wiwa si fa portavoce delle rivendicazioni delle popolazioni del Delta del Niger, specialmente della propria etnia Ogoni maggioritaria nella regione, nei confronti delle multinazionali responsabili di continue perdite di petrolio che danneggiano le colture di sussistenza e l’ecosistema della zona.

Nel 1990 si fa promotore del MOSOP (Movement for the Survival of the Ogoni People); il movimento ottiene risonanza internazionale con una manifestazione di 300.000 persone che Saro-Wiwa guida al suo rilascio da una detenzione di alcuni mesi comminata senza processo.

Arrestato una seconda e una terza volta nel 1994, con l’accusa di aver incitato all’omicidio di alcuni presunti oppositori del MOSOP, Ken Saro-Wiwa viene impiccato a Port Harcourt con altri 8 attivisti del MOSOP al termine di un processo che ha suscitato le più vive proteste da parte dell’opinione pubblica internazionale e delle organizzazione per i diritti umani.

Nel 1996 Jenny Green, avvocato del Center for Constitutional Rights di New York avviò una causa contro la Shell per dimostrare il coinvolgimento della multinazionale petrolifera nell’esecuzione di Saro-Kiwa. Il processo ha poi avuto inizio nel maggio 2009, e la Shell ha subito patteggiato accettando di pagare un risarcimento di 15 milioni e mezzo di dollari (11,1 milioni di euro). La Shell ha però precisato che ha accettato di pagare il risarcimento non perché colpevole del fatto ma per aiutare il “processo di riconciliazione”.

qui la scheda wiki originale

 

CHI P’ING MEI (fiore di prugno nel vaso d’oro)

Anonimo, “Chin P’ing Mei. Romanzo cinese del secolo XVI.”, a cura di Piero Jahier e Maj-Lis Rissler Stoneman con uno scritto di Arthur Waley, ed ES srl, 2005, Milano.

Un romanzo-fiume ricchissimo di avventure e personaggi. Scritto nel XVI secolo e ambientato in epoca Song (sec XIII), si raccontano le avventure (erotiche e non!!!) del mercante Hsi-men (XIMEN), delle sue mogli e di tutto lo straordinario ventaglio di personaggi che avranno a che fare con le loro vite.
Ximen é un uomo ricco e corrotto, raffinato ed elegante, spietato, feroce ed aggressivo, viziato e incontentabile ma anche generoso e simpatico, audace, dissoluto e disinvolto, carico di un inesauribile eros che lo porterà ad una fine prematura e tragica.
Il racconto delle sue infinite avventure diventa un pretesto per descrivere una sociètà tanto raffinata quanto decadente e ci offre uno spaccato inedito della ricchissima e articolata cultura e società cinese del XIII secolo.

Due volumi di racconti in cui non si vede l’ora di finirne uno per passare al successivo rimanendo “incollati” al libro! Si indaga sull’uomo, preso in tutti i suoi aspetti, dal comportamento più ignobile al più virtuoso. IMPERDIBILE!

Per chi volesse approfondire consultate il sito tuttocina e la tesina di una studentessa padovana veramente interessante e ricca di spunti!

Alfredo Jaar

Artista contemporaneo (1956) cileno che ha fatto della informazione e della cultura (…o meglio della “mancanza di cultura”) il suo principale “cavallo di battaglia”.
Le sue opere portano la concentrazione del visitatore su fatti di cronaca gravissimi e contemporanei colposamente trascurati dal mondo dell’informazione.
Scheda wiki dell’artista.
Sito web di Alfredo.

Il Perché del trionfo di Berlusconi nella politica italiana!

Ogni popolo è caratterizzato dai valori che gli sono fondamentali.
Quello che può essere accettato in una società può non esserlo in un’altra. Per capire i meccanismi nascosti della politica italiana, bisogna andare alle radici della cultura di questo popolo! La realtà italiana è anomala per molte società democratiche. Come mai un uomo da solo, riesce ad imporre la sua volontà nella politica italiana? Cosa incarna ideologicamente il Cavaliere? Perché milioni di italiani ammirano molto questo personaggio? Per capire tutti questi successi, mi sono permesso di analizzare bene la società nella quale vivo da molti anni e dalla quale sono fuori di ogni coinvolgimento politico e mediatico! Non faccio parte di nessuna formazione politica italiana, non ho mai lavorato né alla RAI (Radio Televisione italiana) e né nel grande gruppo Mediaset di Berlusconi. Inoltre non ho mai lavorato per alcun organo di stampa. Nonostante io sia in Italia da 17 anni, ho mantenuto la mia nazionalità di origine, malgrado abbia i requisiti necessari per diventare cittadino italiano! Perché vi dico tutte queste informazioni? Per farvi capire che sono lontano dal sistema e fuori da ogni influenza e posso provare a darvi obiettivamente un’osservazione con una visione distaccata sulle ragioni del trionfo di Berlusconi nella vita pubblica e politica italiana!
Tutto quello che in un’altra democrazia non è permesso e che porterebbe alle dimissioni di un leader politico, in Italia non ha alcun effetto. L’Italia è il paese dove può succedere di vedere persone accusate di illeciti o condannati per corruzione, mafia, evasione fiscale, abuso d’ufficio, ricatto, aggiotaggio ecc. diventare addirittura personaggi famosi che compaiono di frequente nei vari programmi televisivi, magari partecipando anche ai Reality Show. In Italia, molti reati sono depenalizzati come per esempio il falso in bilancio, molti sono i deputati accusati o condannati anche definitivamente per vari reati che siedono imperturbati in Parlamento. Inoltre, dire a una persona di essere “ furbo “ in Italia è un grande complimento, anche se in realtà la furbizia è una pratica che permette all’individuo di raggiungere i suoi obbiettivi ai danni dell’altra persona o della collettività. La furbizia è diversa dell’intelligenza!!!. Con tutte queste pratiche non ortodosse per un paese democratico, che messaggio si vuole trasmettere al popolo? Solo valori erronei ma che diventano positivi e condivisi da molti! Dunque i valori che in molti paesi democratici danneggerebbero politicamente l’individuo, in Italia danno invece in molti casi, visibilità, notorietà e magari ti preparano per una grande carriera politica!!!
L’elettorato italiano è eterogeneo e composto da elettori Cattolici che si riconoscono nei valori della Chiesa, dai Nostalgici, dagli ideologici che si riconoscono nei valori della Sinistra o della Destra, dai Separasti, dai Populisti, dagli Xenofobi, dagli anti Berlusconi ed infine dai sostenitori di Berlusconi.
Molti simpatizzanti di Berlusconi sanno che, l’uomo, oltre a lavorare per il bene dell’Italia, lavora anche per i suoi interessi e che l’origine del suo patrimonio presenta dei lati oscuri. Per loro, tutto questo non conta. Tutto ciò spiega perché, molti non hanno il coraggio di affermare di votarlo, magari sono quelli che parlano più di tutti male di lui, ma una volta soli, gli danno il voto. Come spiegare altrimenti che il personaggio è sempre criticato dalla maggioranza degli italiani ma viene sempre eletto? Un mistero? No!!! Diciamoci la verità, Berlusconi, uomo ricco ed influente incarna nel bene e nel male, il grande sogno di molti italiani! Questo sogno, non importa come viene realizzato in un paese in cui, i valori sociali e culturali sono diversi da quelli sviluppati in molti paesi democratici! Questo spiega anche in grande parte, l’anomalia italiana nella politica. La Sinistra può cambiare nome o leader, Berlusconi trionferà sempre finche vivrà. Il problema della politica italiana è altrove: Mancanza di una vera Cultura Politica. Forse ho sbagliato nella mia analisi? Ditemi voi!

Copiright @ Jivis Tegno
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